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Mercato e impresa

Gli atti illegittimi della pubblica amministrazione vanno risarciti

Va ripagato il tempo che un’impresa ha perso per il mancato avvio di un’attività a causa di provvedimenti illegittimi da parte della pubblica amministrazione. Il danno deve essere quantificato sui mancati utili dell’impresa come risultanti dai bilanci depositati dall’inizio dell’attività.
 
E’ quanto ha stabilito il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1457 del 6 marzo del 2018, sulla richiesta di risarcimento dei danni avanzata da un’impresa la cui attività era rimasta illegittimamente bloccata dalla Soprintendenza dei beni archeologici.
 
Nel caso di specie si trattava di un’impresa turistica che non era riuscita ad avviare l’attività balneare in quanto paralizzata da due provvedimenti emanati dalla Soprintendenza, dichiarati entrambi illegittimi e annullati dal giudice amministrativo.
 
Un vero e proprio “accanimento” nei confronti dell’iniziativa imprenditoriale - si legge nella sentenza -posto in essere senza alcuna giustificazione e “in totale spregio del fatto che, pochi anni prima, la stessa Soprintendenza aveva autorizzato la medesima iniziativa con ciò trascurando completamente l’affidamento ingenerato sul privato sulla fattibilità dell’opera”.
 
I fatti esaminati nella sentenza possono così brevemente riassumersi:
-          l’impresa aveva ottenuto tutte le autorizzazioni necessarie per l’insediamento di uno stabilimento balneare (autorizzazione da parte della Soprintendenza archeologica; nulla osta paesaggistico; permesso di costruire);
-          i lavori venivano sospesi dalla Soprintendenza per i beni architettonici e il paesaggio per asserite difformità tra le previsioni del progetto e i lavori in corso;
-          seguiva un procedimento penale poi archiviato;
-          successivamente interveniva la revoca dell’autorizzazione archeologica precedentemente rilasciata;
-          seguivano due decreti di occupazione dell’area per effettuare dei saggi archeologici (di cui il secondo emanato nonostante l’annullamento giurisdizionale del primo e poi anch’esso annullato).
 
Di fronte a tale comportamento l’impresa ha chiesto il ristoro del pregiudizio subito a seguito dei provvedimenti illegittimi e definitivamente annullati in via giurisdizionale.
 
Per il Consiglio di Stato la quantificazione del danno è desumibile dai bilanci dell’impresa ossia dagli utili perduti senza necessità di ricorrere a consulenze esterne.
 
Rispetto ai precedenti orientamenti della giurisprudenza finalizzati a quantificare il danno in somme forfettarie, il Consiglio di Stato ha riconosciuto che lo stesso è desumibile attraverso l’esame di “cosa poteva succedere” se l’amministrazione non avesse impedito per due anni l’inizio dell’attività dell’impresa. A tal fine il danno è stato liquidato sulla base dei bilanci prodotti dalla società interessata con il riconoscimento di due anni di utili perduti detratte le imposte.
 
 
In allegato:
 
 

Permesso in sanatoria: via libera se il vincolo paesaggistico è successivo all’abuso

L’art. 36 del Dpr 380/2001 “Testo Unico edilizia” consente la sanatoria degli abusi edilizi cd. “formali”, ossia di quegli interventi realizzati in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio (permesso di costruire o Scia), ma comunque consentiti dal piano urbanistico vigente e che quindi avrebbero potuto essere autorizzati se l’interessato avesse presentato la domanda al comune. Si tratta dunque di uno strumento di sanatoria a regime, da non confondere con il condono edilizio che ha carattere straordinario e riguarda gli interventi abusivi in contrasto con il piano urbanistico.
In particolare, il Testo Unico Edilizia permette al responsabile dell’abuso o al  proprietario dell’immobile di ottenere il permesso di costruire in sanatoria a condizione che l’intervento realizzato senza titolo risulti  conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della sua realizzazione, sia della presentazione della domanda (art. 36, comma 1). Il rilascio del permesso di costruire in sanatoria è inoltre subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero in caso di gratuità dell’intervento, in misura pari a quella prevista dall’art. 16 del Dpr 380/2001 (art. 36, comma 2).
Un problema frequente nell’ambito dei procedimenti avviati in base all’art. 36 Dpr 380/2001 è rappresentato dalla presenza di vincoli paesaggistici, che il più delle volte impediscono il rilascio del permesso in sanatoria. Infatti l’art. 167 del D.lgs. 42/2004 consente la sanatoria solo di abusi di lieve entità e cioè:
a) lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
c) lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380.
La giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sez. VI, 14/10/2015, n. 4759) e l’Ufficio legislativo del Ministero dei beni culturali (Parere 12385-27/04/2016) hanno fornito un’interpretazione degli artt. 36 Dpr 380/2001 e 167 D.lgs. 42/2004 che amplia la possibilità di ottenere il permesso in sanatoria in aree vincolate anche ad opere abusive realizzate con aumenti di volume o superficie.
In particolare il parere afferma che, nel caso in cui le opere siano state realizzate senza titolo (o in difformità da esso) prima dell’apposizione del vincolo paesaggistico, non sussiste un illecito paesaggistico perché al momento della realizzazione dell’opera abusiva non sussisteva alcun vincolo. Pertanto il privato non era tenuto ad acquisire l’autorizzazione paesaggistica.
Il Ministero precisa che, essendo comunque presente un vincolo seppure sopravvenuto, l’abuso andrà sottoposto ad una verifica di compatibilità paesaggistica secondo le modalità e la disciplina dell’art. 146 D.lgs. 42/2004 e cioè secondo il procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica ordinaria.
Si segnala infine che questa interpretazione è stata recentemente ripresa dalla regione Emilia Romagna nell’ambito della LR 12/2017 che, modificando l’art. 17 della legge regionale sull’edilizia 23/2004 ha stabilito che: "Nei casi in cui il vincolo paesaggistico sia stato apposto in data successiva alla realizzazione delle opere oggetto della sanatoria, l'accertamento di conformità è subordinato all'acquisizione dell'assenso delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo. L'assenso è espresso con le modalità previste per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica di cui all'articolo 146 del decreto legislativo n. 42 del 2004”.
 

Condhotel: il DPCM 13/2018 in dettaglio

Il Dpcm 13/2018 - in vigore dal 21 marzo prossimo - disciplina per la prima volta i condhotel ossia una nuova forma di ospitalità ricettiva che intende coniugare, in un contesto immobiliare e funzionale unitario, l’attività alberghiera con la residenza (vedi ns.News del 12 marzo 2018).
Nonostante l’obiettivo di diversificare l’offerta turistica e favorire gli investimenti volti alla riqualificazione degli esercizi alberghieri esistenti, la normativa del Dpcm – emanato in attuazione della delega prevista dall’art. 31 del dl 133/2014 cd. sblocca italia – si discosta in diversi punti dalla norma primaria, ponendo condizioni e restrizioni all’esercizio dei condhotel che ne limitano le potenzialità.
Ciò premesso, si svolge di seguito l’analisi dettagliata dei principali articoli della nuova normativa.
 
Art. 2 – Ambito di applicazione
L’art. 2 stabilisce che il Dpcm 13/2018 si applica agli “esercizi alberghieri esistenti che rispettano le condizioni di esercizio di cui all’art. 4 del presente decreto”.
Si è in presenza di una disposizione molto rigida perché fa riferimento esclusivamente alle strutture alberghiere già esistenti (non è specificato se con attività in corso alla data di entrata in vigore del Dpcm 13/2018) e, pertanto,  si ritiene possibile sostenere che il Dpcm trovi applicazione anche ad alberghi non in attività, purché con vincolo alberghiero in essere.
Per quanto riguarda invece il riferimento al rispetto delle condizioni di esercizio dell’art. 4, esso deve necessariamente leggersi come relativo alla struttura ricettiva una volta riqualificata e idonea ad essere aperta al pubblico come condhotel e non alla struttura prima dei lavori di riqualificazione come definiti all’art. 3 .
 
Art. 3 – Definizioni
L’art. 3 elenca le seguenti definizioni:
-   condhotel”: esercizi alberghieri aperti al pubblico, a gestione unitaria, composti da una o più unità immobiliari ubicate nello stesso comune che forniscono alloggio, servizi accessori ed eventualmente vitto in camere destinate alla ricettività e in unità abitative a destinazione residenziale, dotate di servizio autonomo di cucina, la cui superficie netta non può superare il 40% del totale della superficie netta destinata alle camere.
Al riguardo si evidenzia che la definizione del Dpcm 13/2018 si discosta da quella contenuta nell’art. 31 del DL 133/2014 che indica per le unità abitative una superficie non superiore al 40% della superficie complessiva dei compendi immobiliari.
La norma del Dpcm 13/2018 appare quindi più restrittiva poiché impone il calcolo della superficie netta delle unità abitative ad uso residenziale in rapporto alla sola superficie netta delle camere destinate alla ricettività, senza prendere in considerazione le superfici destinate ai servizi per l’attività ricettiva (sale per ristorazione, cucina, portineria e reception, sala lavanderia, sala deposito bagagli, ecc.), nonché le altre superfici accessorie (es. locali per autorimessa, per impianti tecnologici, locali motore ascensore, ecc.).
Seguendo questo sistema di calcolo le unità abitative risulterebbero minoritarie rispetto alle camere a destinazione ricettiva, venendo meno il rapporto di equilibrio fra le due tipologie delineato nel decreto legge 133/2014.
-   gestione unitaria”: attività concernente la fornitura di alloggio, servizi accessori ed eventualmente anche vitto, sia per le camere destinate alla ricettività, sia in forma integrata e complementare per le unità abitative a destinazione residenziale, dotate di servizio autonomo di cucina;
 
-   fornitura di servizi alberghieri in forma integrata e complementare”: attività concernente la fornitura anche alle unità abitative di tipo residenziale dei servizi alberghieri e aggiuntivi normalmente assicurati dal gestore unico alle camere destinate alla ricettività;
 
-   gestore unico”: il soggetto responsabile della gestione unitaria dell’esercizio alberghiero avviato ai sensi delle leggi vigenti in materia di avviamento dell’esercizio alberghiero.
Come emerge chiaramente dagli articoli 6 e 7 del Dpcm, la figura del gestore unico deve essere tenuta distinta da quella del proprietario della struttura alberghiera, sebbene non vi siano norme che vietano la coincidenza delle due figure nello stesso soggetto.
Si sottolinea che il proprietario della struttura alberghiera, pur potendo essere estraneo dalla gestione del condhotel, è chiamato a subentrare negli obblighi del gestore nel caso di interruzione dell’erogazione dei servizi comuni o di sopravvenuta impossibilità, ovvero, in subordine, ad indennizzare i proprietari delle unità abitative in caso di sua stessa impossibilità sopravvenuta (art. 6, comma 4).  
-   riqualificazione”: interventi di restauro e risanamento conservativo ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. c) Dpr 380/2001 nonché interventi di ristrutturazione edilizia ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d) Dpr 380/2001, la cui realizzazione comporta per l’esercizio alberghiero l’acquisizione di requisiti per una classificazione superiore a quella precedentemente attribuita di almeno una stella (classificazione minima da ottenere pari a tre stelle). Fanno eccezione gli esercizi contrassegnati da un quattro stelle o più già prima dell’intervento di riqualificazione.
 
-    “unità abitative ad uso residenziale”: unità abitative, per le quali sia intervenuto specifico mutamento di destinazione d’uso, dotate di servizio autonomo di cucina, inserite nel contesto del condhotel, destinate alla vendita e soggette al limite di superficie complessiva di cui all’art. 4, comma 1, lett. b).
Fermo restando quanto già evidenziato con riferimento al limite di superficie, si sottolinea che le unità abitative dovranno rispettare anche il limite di superficie minima delle unità immobiliari stabilito dai regolamenti edilizi a livello locale che può essere diverso da comune a comune. Essendo in presenza di immobili “atipici” e per venire incontro alle diverse esigenze locali, sarebbe stato più opportuno prevedere nel Dpcm la possibilità di derogare a tale limite anche ai fini dell’agibilità, come meglio specificato di seguito .
 
Art. 4 – Condizioni di esercizio dei condhotel
L’articolo 4 pone le condizioni per l’esercizio dei condhotel e cioè:
-   presenza, all’esito dei lavori di riqualificazione, di almeno 7 camere, al netto delle unità abitative ad uso residenziale, ubicate in una o più unità immobiliari inserite in un contesto unitario, collocate nel medesimo comune e aventi una distanza non superiore a 200 metri lineari dall’edificio alberghiero sede del ricevimento (comma 1, lett. a).
Si possono così individuare due tipologie di condhotel: quelli che nascono da strutture alberghiere in cui alcune camere sono convertite ad abitazioni e quelli in cui vi è l’aggregazione ad una struttura alberghiera di camere ubicate in altri immobili purché nel raggio di 200 metri.
Con particolare riferimento a questa seconda tipologia, si evidenzia il contrasto del Dpcm con la norma primaria dell’art. 31 del DL 133/2014 la quale non pone un limite di distanza fra edificio alberghiero principale e unità immobiliari secondarie, richiedendo semplicemente l’ubicazione nello stesso comune. È evidente che la previsione nel Dpcm del limite di 200 mt restringerà ulteriormente l’ambito di applicazione del condhotel.
-   rispetto della percentuale massima della superficie netta delle unità abitative ad uso residenziale pari al 40% del totale della superficie netta destinata alle camere (comma 1, lett. b).
Fermo restando quanto già evidenziato sopra nel commento all’art. 3, si sottolinea che per individuare la superficie netta non esistono precisi riferimenti normativi (neanche all’interno dello stesso Dpcm) e lo stesso Regolamento edilizio tipo, predisposto a livello nazionale, che contiene anche le definizioni uniformi dei parametri urbanistici ed edilizi, prevede la superficie utile (“Superficie di pavimento degli spazi di un edificio misurata al netto della superficie accessoria e di murature, pilastri, tramezzi, sguinci e vani di porte e finestre”) e non quella netta.
-   presenza di portineria unica per tutti coloro che usufruiscono del condhotel, sia in qualità di ospiti dell’esercizio alberghiero, sia di proprietari delle unità abitative, con possibilità di prevedere un ingresso specifico e separato per i dipendenti e i fornitori (comma 1, lett. c).
 
-   gestione unitaria ed integrata dei servizi del condhotel, delle camere e delle unità abitative a destinazione residenziale per la durata specificata nel contratto di trasferimento di queste ultime e comunque non inferiore a dieci anni dall’avvio del condhotel (comma 1, lett. d).
 
-   esecuzione di un intervento di riqualificazione all’esito del quale venga riconosciuta all’esercizio alberghiero una classificazione minima di tre stelle (comma 1, lett. e).
In sostanza gli interventi di riqualificazione devono essere in grado di determinare il passaggio della struttura alberghiera ad una classificazione superiore rispetto a quella originaria come indicato dall’art. 3, comma 1, lett. e) con riferimento alla definizione di riqualificazione, salvo che l’immobile non fosse già classificato con quattro o più stelle.
-   rispetto della normativa vigente in tema di agibilità per le unità abitative ad uso residenziale (art. 24 Dpr 380/2001) (comma 1, lett. f).
Il Dpcm richiama in forma generica i requisiti dell’agibilità per le unità abitative poste all’interno della struttura alberghiera. Su questo aspetto, considerata la novità della formula sarebbe stata opportuna una maggiore chiarezza.
 
Art. 5 – Esercizio dell’attività dei condhotel
L’avvio e l’esercizio dell’attività dei condhotel è disciplinato dalle Regioni nel rispetto del Dpcm 13/2018.
I servizi per le unità abitative devono essere erogati per un numero di anni non inferiore a 10 dall’avvio del condhotel, fatti salvi i casi di cessazione per cause di forza maggiore indipendenti dalla volontà dell’esercente. La violazione dell’obbligo di durata minima decennale dei servizi configura un mutamento non consentito della destinazione d’uso dell’immobile (comma 2).
Premesso che la configurazione di un mutamento d’uso “abusivo” appare una  forzatura, si è in presenza di una norma dotata di non pochi profili di incertezza con riferimento sia alla sorte delle unità immobiliari e alla sanzione da applicare, sia ai rapporti con l’art. 6, comma 4 che parla di “interruzione dell’erogazione dei servizi comuni o di sopravvenuta impossibilità” e in tali casi prevede il subentro del proprietario della struttura alberghiera e, in subordine, l’indennizzo da parte di quest’ultimo.
 
Art. 6 – Acquisto di unità abitative ad uso residenziale ubicate in un condhotel
L’acquisto dell’unità abitativa, nella disciplina del condhotel, assume una connotazione giuridica particolare in parte distinta sia dal diritto di proprietà quale diritto reale esclusivo sia dalla multiproprietà alberghiera. Rispetto alla prima fattispecie, infatti, qualificante è la presenza dell’attività di gestione unitaria (che può comprendere la portineria, l’utilizzo dei vari servizi offerti dalla struttura alberghiera quali piscine, campi sportivi, centri benessere, ristorazione, pulizia ecc.). Peraltro proprio il contratto di compravendita dovrà specificare la durata minima obbligatoria durante la quale il gestore o, in subordine, il proprietario della struttura dovrà assicurare la fruizione dei servizi cd. unitari con possibilità di indennizzo, a favore dell’acquirente, nel caso in cui tali servizi siano interrotti prima della scadenza di detto termine. Si tratta di una tipologia abitativa che può creare un nuovo mercato soprattutto per le seconde case permettendo una gestione flessibile e una riduzione dei costi oltre all’importanza di poter riqualificare le strutture alberghiere esistenti, specie quelle di maggiori dimensioni, nella prospettiva di offrire una alternativa di utilizzo evitando così immobili abbandonati anche in zone centrali di località turistiche di pregio e azzerando il consumo di nuovo suolo.
L’acquirente potrà ovviamente anche decidere liberamente di locare (ipotesi non espressamente prevista dal decreto) , successivamente all’acquisto, l’unità abitativa per brevi o lunghi periodi, oppure di affidarla al gestore per un impiego di tipo alberghiero (ipotesi contemplata dal decreto) ovviamente pattuendo le modalità per la suddivisione di costi e ricavi.  
Rispetto alla multiproprietà alberghiera, caratterizzata da un godimento a tempo parziale dell’unità immobiliare, spesso non definita neanche catastalmente e sulla quale permane, in ogni caso, il vincolo di destinazione alberghiera, nell’ipotesi del condhotel il diritto di proprietà è pieno ed esclusivo e riguarda una unità immobiliare  residenziale ben individuata sulla quale è stato eliminato il vincolo di destinazione alberghiero. Le due fattispecie hanno dunque in comune solo l’opportunità di assicurarsi di soggiornare in una struttura organizzata dotata di una serie di servizi.
I contratti di trasferimento della proprietà delle unità abitative ubicate nei condhotel dovranno avere, oltre ai requisiti di forma e di sostanza già previsti dalle vigenti normative per i contratti di compravendita immobiliare, i seguenti specifici contenuti:
-        oltre alla descrizione/individuazione dell’immobile oggetto del trasferimento anche una descrizione appropriata dell’intera struttura;
-        le condizioni di godimento dei servizi e delle strutture presenti nel condhotel;
-        una elencazione dei costi gravanti sull’acquirente connessi alla proprietà con indicazione delle spese obbligatorie quali quelle relative ad imposte e tasse, spese amministrative e gestionali quali quelle relative alla gestione manutenzione e riparazione delle parti comuni; in tal caso si tratterà soprattutto di indicare caso mai i criteri di ripartizione tra proprietario e gestore alberghiero dei costi e delle spese. Trattandosi di una fattispecie “atipica” probabilmente non si potrà fare riferimento ai criteri previsti dal codice civile per il condominio.
Nel contratto può essere inserita la previsione che ove non utilizzata dal proprietario l’unita abitativa possa essere utilizzata dal gestore per impieghi alberghieri. Questa facoltà potrà essere regolata e definita anche in un momento successivo anche se il decreto non lo specifica.
Art. 11 – Rimozione del vincolo di destinazione alberghiera
L’art. 11 propone un percorso per la rimozione del vincolo alberghiero in vista della realizzazione della quota di unità abitative nell’ambito dei condhotel che ha il suo snodo nel rinvio ad una futura normativa regionale volta a regolamentare in modo semplificato l’eventuale variante urbanistica.
Si tratta di un percorso complesso che, nelle more della adozione della normativa regionale (l’art. 13 assegna alle Regioni il termine di un anno dalla pubblicazione del Dpcm per l’adeguamento della propria normativa), rischia di impedire tutti quegli interventi per i quali la realizzazione delle residenze richiede una variante urbanistica.
Per questo motivo si ritiene che sino a quando la Regione non emani la normativa di cui sopra, laddove l’intervento sia in deroga rispetto al piano urbanistico, si possa utilizzare il procedimento di variante semplificata di cui all’art. 8 del Dpr 160/2010 (impianti produttivi) prevedendo il ricorso alla conferenza di servizi ai sensi degli artt. 14 e seguenti della Legge241/1990. Tale procedura consente, infatti, la variazione dello strumento urbanistico all’esito della conferenza di servizi con termini senza dubbio ridotti rispetto ad un procedimento ordinario di variante urbanistica.
Qualora l’intervento sia, invece, conforme allo strumento urbanistico generale, sarà necessario un provvedimento del comune di rimozione parziale del vincolo alberghiero gravante sulla struttura oggetto dei lavori di riqualificazione, che presumibilmente condizionerà l’efficacia della Scia ovvero interverrà contestualmente al rilascio del permesso di costruire ai sensi del DPR 380/2001.
Qualora l’intervento comporti un incremento del carico urbanistico sono dovuti i relativi oneri di urbanizzazione e devono essere rispettati gli standard urbanistici previsti dal DM 1444/1968 e dalle leggi regionali.
 
Art. 12 – Programmazione locale
La norma è finalizzata a salvaguardare le competenze delle Regioni e dei Comuni in materia di programmazione turistica. Si prevede infatti che le Regioni possano introdurre appositi strumenti di pianificazione concernenti la realizzazione dei condhotel in modo che sia assicurata, d’intesa col comune interessato, una adeguata proporzione fra unità abitative ad uso residenziale in condhotel e ricettività alberghiera.
La norma, oltre a rinviare ad un ulteriore strumento di pianificazione, è generica e si presta ad essere recepita ed attuata dalla normativa locale con previsioni che potrebbero disincentivare l’utilizzo .
 
Art. 13 – Clausola di salvaguardia delle autonomie
Il Dpcm impone alle Regioni a statuto ordinario (comprese quelle che hanno già previsto i condhotel nelle loro leggi sul turismo) di adeguare i propri ordinamenti entro un anno dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e cioè entro il 6 marzo 2019. Le Regioni a statuto speciale avranno a disposizione lo stesso termine per l’adeguamento che però avverrà nel rispetto degli statuti speciali e delle relative norme di attuazione. E’ evidente anche in considerazione di quanto detto in precedenza (es. art. 11) l’importanza dell’attività regionale per trasformare questa normativa in una effettiva opportunità di riqualificazione immobiliare e urbana.
 
In allegato:
 
 

Monetizzazione aree: il quadro delle norme regionali

L’esigenza di riqualificare – o anche solo di modificare (ad es. attraverso il frazionamento delle unità immobiliari o il mutamento di destinazione d’uso anche senza opere) – il patrimonio edilizio esistente sta portando ad una diffusione sempre maggiore della monetizzazione delle aree a standard e cioè della possibilità per il privato di corrispondere al comune una somma di denaro in luogo della cessione diretta e gratuita di tali aree a seguito degli interventi di trasformazione del territorio o comunque comportanti aumenti del carico urbanistico.
Si tratta di uno strumento utile e volto a garantire una maggiore flessibilità nell’attività edilizia qualora non sia possibile reperire in tutto o in parte le aree necessarie per le attività collettive connesse all’intervento.
La monetizzazione non è disciplinata a livello statale, ma è riconosciuta a livello giurisprudenziale ed è prevista nelle normative regionali e locali che anno dopo anno stanno introducendo sempre nuove disposizioni su questa tematica.
L’Ance intende fornire un quadro delle diverse normative presenti a livello regionale su questo tema, nella convinzione che si è in presenza di uno strumento fondamentale per consentire la rigenerazione del patrimonio edilizio esistente, almeno fino a quando non verrà riformata la normativa sugli standard urbanistici ed edilizi contenuta nel DM 1444/1968.
Il DM 1444/1968 – di cui quest’anno ricorrono i cinquant’anni dall’emanazione – era improntato ad un modello di sviluppo territoriale di tipo espansivo e  basato su un dato meramente quantitativo (ad es. l’art. 3 prescrive che per ogni nuovo abitante insediato devono essere assicurati  18 mq di spazi per attività collettive come verde pubblico, parcheggi, scuole, aree per attrezzature religiose, sociali, assistenziali, ecc.), e non qualitativo che invece è prioritario soprattutto in un’ottica di contenimento del consumo di suolo e di incentivazione del processo di riqualificazione urbana.
Il quadro normativo che emerge dal dossier Ance è estremamente variegato sia perché vi sono regioni che disciplinano la monetizzazione in modo organico, mentre altre la prevedono solo in relazione a particolari tipologie di interventi (ad es. recupero sottotetti o piano casa), sia per l’eterogeneità delle modalità di calcolo delle somme da corrispondere, molto spesso indeterminate o rimesse alla discrezionalità dei singoli enti locali, sia infine perché in alcuni casi vengono imposte precise condizioni.
 
In allegato:
 

Condhotel: al via la riqualificazione delle strutture alberghiere

Con la pubblicazione (Gazzetta Ufficiale n. 54 del 6 marzo 2018) del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 22 gennaio 2018, n. 13, contenente il regolamento per la definizione delle condizioni di esercizio dei condhotel, prende il via una nuova forma di ospitalità - molto diffusa all’estero e in Italia già prevista da alcune Regioni (Lombardia, Piemonte, Toscana e Marche) - finalizzata a diversificare l’offerta turistica e a favorire gli investimenti volti alla riqualificazione degli esercizi alberghieri esistenti (art. 1).
Nel DPCM 13/2018 – emanato in attuazione dell’art. 31 del Decreto legge 133/2014 cd. “sblocca cantieri” e in vigore dal 21 marzo 2018 – i condhotel sono definiti, infatti, come esercizi alberghieri aperti al pubblico, a gestione unitaria, composti da camere destinate alla ricettività e da unità immobiliari a destinazione residenziale, ubicate nello stesso immobile o in altri immobili purché collocati nello stesso comune ad una distanza non superiore a 200 metri lineari dall’edificio alberghiero. Alle unità residenziali, la cui superficie netta non può superare il 40% del totale della superficie netta destinata alle camere, sono forniti i servizi alberghieri normalmente assicurati dal gestore della struttura ricettiva (art. 3).
Per l’apertura dei condhotel, che devono riguardare esercizi alberghieri esistenti (art. 2), è obbligatoria la realizzazione di interventi di riqualificazione all’esito dei quali le strutture alberghiere ottenga i requisiti per una classificazione superiore a quella precedente e comunque non inferiore a di tre stelle (art. 3 e 4).
È evidente che tutti i limiti sopra descritti restringono molto l’ambito di applicazione di questa nuova forma di ospitalità che potrebbe avere notevoli potenzialità soprattutto con riferimento alla trasformazione degli innumerevoli immobili ad uso alberghiero oggi dismessi perché non più in linea con la domanda degli utenti.
Si rinvia ad una successivo documento di prossima pubblicazione per il dettaglio e l’approfondimento della nuova normativa.
 
In allegato:
 

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