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Rifiuti: in vigore la nuova norma su end of waste

Il 3 novembre 2019 è entrata in vigore la legge 128/2019 (GU n. 257 del 2 novembre 2019) di conversione del d.l. 101/2019 cd. decreto per  le “crisi aziendali”  che ha, tra l’altro, modificato ed integrato l’art. 184 ter del D.Lgs. 152/2006 (Codice dell’ambiente) in materia di end of waste, ossia cessazione della qualifica di rifiuto.

L’art. 14-bis introdotto grazie all’azione di varie associazioni di categoria tra cui l’Ance, prevede in particolare, che, qualora per alcune tipologie di rifiuti non siano stati stabiliti a livello europeo e nazionale i criteri per la loro gestione come “end of waste”,  le Regioni (o le Province se delegate) possono rilasciare – e quindi anche rinnovare – le autorizzazioni “caso per caso”, nel rispetto delle condizioni di cui all’articolo 6 della direttiva europea 2008/98 e sulla base di criteri dettagliati che devono essere definiti nell’ambito degli stessi procedimenti autorizzatori e riguardano:

  1. materiali di rifiuto in entrata ammissibili ai fini dell'operazione di recupero;
  2. processi e tecniche di trattamento consentiti;
  3. criteri di qualità per i materiali di cui è cessata la qualifica di rifiuto ottenuti dall'operazione di recupero in linea con le norme di prodotto applicabili, compresi i valori limite per le sostanze inquinanti, se necessario;
  4. requisiti affinché i sistemi di gestione dimostrino il rispetto dei criteri relativi alla cessazione della qualifica di rifiuto, compresi il controllo della qualità, l'automonitoraggio e l'accreditamento, se del caso;
  5. un requisito relativo alla dichiarazione di conformità.

I provvedimenti autorizzatori devono essere comunicati dalle autorità che li hanno rilasciati all’ISPRA (Istituto per la Protezione dell’Ambiente) che, attraverso le ARPA territorialmente competenti, svolgerà controlli a campione. Viene, inoltre, istituito, al fine del rispetto dei principi di trasparenza e di pubblicità,  presso il Ministero dell'ambiente il registro nazionale deputato alla raccolta delle autorizzazioni rilasciate e delle procedure semplificate concluse ai sensi dello stesso articolo 184 ter del D.Lgs. 152/2006.

Viene, infine, chiarito che le autorizzazioni in essere al 3 novembre 2019 o per le quali è in corso un procedimento di rinnovo o che risultano scadute ma per le quali sarà presentata un’istanza di rinnovo entro il 2 marzo 2020, sono fatte salve e sono rinnovate nel rispetto delle disposizioni di cui all’articolo 184-ter, comma 3, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (fatto salvo l’obbligo di aggiornamento nel caso in cui siano adottati i decreti end of waste da parte del ministero).

Si ricorda che la norma in esame si è resa necessaria a seguito della sentenza del Consiglio di Stato n. 1229/2018, con la quale i giudici avevano affermato che la competenza al rilascio delle autorizzazioni “caso per caso” in materia di end of waste, spettava esclusivamente allo Stato e non anche alle Regioni, determinando, in tal modo,  una situazione di grave incertezza e, in alcuni casi, di blocco delle attività tra gli operatori del settore.

In allegato

l’art. 14 bis della legge 128/2019

ANCE - Riproduzione e utilizzazione riservata ai sensi dell’art. 65 della Legge n. 633/1941 

Appalto privato: non si calcola la penale se il ritardo è giustificato

In un contratto di appalto il termine per l’esecuzione dei lavori e la consegna dell’opera riveste, in genere, notevole importanza per il committente che spesso, proprio per indurre l’appaltatore a rispettarlo, sceglie di inserire apposita clausola per regolare fin da subito la duplice ipotesi dell'inadempimento o del ritardo sul presupposto che l'uno o l'altro siano imputabili all'obbligato. La clausola penale assolve, quindi, la funzione di stabilire preventivamente e pattiziamente, limitando, quindi, anche successive controversie, una sanzione pecuniaria di un certo ammontare (in genere una quota fissa per ogni giorno di ritardo oppure in misura percentuale).

La giurisprudenza prevalente ha avuto modo di chiarire che la “richiesta di notevoli e importanti variazioni delle opere, avanzata in corso di esecuzione dei lavori dal committente, comporta la sostituzione consensuale del regolamento contrattuale in essere e il venir meno del termine di consegna e della penale per il ritardo originariamente pattuiti. L'efficacia della penale è tuttavia conservata soltanto se le parti fissano di comune accordo un nuovo termine mentre, in mancanza, grava sul committente, che intenda conseguire il risarcimento del danno da ritardata consegna dell'opera, l'onere di fornire la prova della colpa dell'appaltatore” - Corte di Cassazione Ordinanza n. 21515 del 20/08/2019; Corte Cassazione Civile Sez. II, 02/04/2019, n.9152). 

In altre parole “perchè la penale conservi efficacia, occorre che le parti di comune accordo fissino un nuovo termine. In mancanza, incombe al committente, che persegua il risarcimento del danno da ritardata consegna dell'opera, l'onere di fornire la prova della colpa dell'appaltatore” -  Corte Cassazione Civile Sez. II, 2/4/2019, n. 9152.

Più in generale, quindi, anche se è stata pattuita una clausola penale, l’appaltatore può sempre provare che l'inadempimento o il ritardo nell'esecuzione dei lavori sia stato determinato da impossibilità della prestazione, derivante da causa a lui non imputabile (es. dimostrazione della sussistenza di circostanze ostative alla prosecuzione dei lavori risultanti dal giornale di cantiere; fornitura di materiale a carico del committente avvenuta in ritardo; intervenuta accettazione dell'opera senza riserve, anche sotto il profilo temporale della loro consegna; - Corte d'Appello Genova Sez. I, Sentenza 27/6/2019 - Tribunale Taranto Sez. I, 26/3/2019 - Tribunale Grosseto, 28/1/2019. 

E’ stato però precisato che la presenza di “lavori extracapitolato” non determina l'automatica inapplicabilità ed inefficacia della clausola penale. “Anche a ritenere dimostrato il fatto che i lavori di cui trattasi non erano previsti nell'originario progetto, la mera esistenza di variazioni non può, di per sé, giustificare il venir meno del termine contrattuale di ultimazione dei lavori. Occorre, quantomeno, verificare l'impatto che queste hanno avuto sull'andamento degli stessi ed è preciso onere della parte interessata specificare le relative circostanze, che non possono neppure essere presunte alla luce del mero fatto che l'importo del corrispettivo fosse aumentato per effetto delle variazioni stesse (tale aumento, infatti, potrebbe essere determinato dalla necessità di impiegare materiali di maggior costo e non un numero superiore di ore di manodopera)” Tribunale Pavia, Sezione III Civile 23/05/2018, n. 855.

Tensostrutture: quando rientrano nell’attività edilizia libera

L’art. 6 del Dpr 380/2001 “Testo unico Edilizia” elenca le tipologie di interventi che possono essere realizzati senza alcun titolo abilitativo, fra cui sono comprese le “opere dirette a soddisfare esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e comunque entro un termine non superiore a 90 giorni previa comunicazione di avvio lavori al Comune”.

Successivamente con il Decreto del Ministro delle Infrastrutture 2 marzo 2018 (in attuazione del D.lgs. 222/1016, cd. “Scia 2”) è stato approvato il Glossario dell’attività edilizia libera ossia l’elenco delle principali opere che possono essere eseguite in attività edilizia libera (vedi News Ance del 09/04/2018 Un glossario unico per le opere da realizzare liberamente). Il Glossario include espressamente fra le opere contingenti e temporanee anche le tensostrutture, ossia quelle strutture realizzate con materiali mantenuti in posizione tramite tensione, spesso utilizzate nell’ambito delle attività produttive e commerciali.

Premesso che alcune normative regionali hanno integrato o modificato la disciplina nazionale (ad esempio, l’Emilia Romagna nella Legge regionale 15/2013 ha portato il termine massimo di operatività delle strutture temporanee a 6 mesi, compresi i tempi di allestimento e smontaggio delle strutture), la giurisprudenza ha nel tempo evidenziato che le tensostrutture sono opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera, senza necessità del preventivo rilascio del titolo abilitativo, solo quando sono funzionali a soddisfare esigenze contingenti e temporanee e destinate ad essere immediatamente rimosse entro un termine non superiore ai novanta giorni” (da ultimo, Cassazione, penale, sez. III, sentenza 17/09/2019, n. 38473).

Ciò che conta è il tempo di permanenza della tensostruttura, mentre sono irrilevanti i materiali utilizzati. I giudici hanno infatti affermato che in materia edilizia, ai fini della verifica del carattere della precarietà e della relativa esclusione dal titolo edilizio, non sono rilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e l’agevole rimovibilità, ma le esigenze temporanee cui l’opera assolve.
 

Qualora le tensostrutture non rispondono a questi requisiti, sarà pertanto necessario richiedere il permesso di costruire ovvero, in presenza di un’opera qualificabile come pertinenza e con volume non superiore al 20% dell’edificio principale, presentare una Scia.

In allegato:

Sentenza della Cassazione n. 38473/2019

Rifiuti: dalla Cassazione alcune indicazioni per il deposito temporaneo

Il deposito temporaneo dei rifiuti deve essere realizzato presso il luogo in cui sono stati prodotti: lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 43422 del 23 ottobre 2019.

In particolare, i giudici hanno evidenziato come il deposito temporaneo costituisca una "deroga" al generale principio in base al quale il deposito o lo stoccaggio dei rifiuti richieda una specifica autorizzazione, in via ordinaria o semplificata. Proprio in quanto si tratta di una deroga è perciò necessario, ad avviso dei giudici, che siano osservate tutte le condizioni appositamente previste dalla legge e in particolare quelle contenute nell'art. 183, comma 1 lett. bb). del D.Lgs. 152/2006 (Codice dell'ambiente).

Si ricorda, al riguardo, che i rifiuti raggruppati nel deposito temporale devono essere avviati alle operazioni di recupero o smaltimento secondo una delle modalità alternative, a scelta del produttore dei rifiuti stessi:

  • con cadenza almeno trimestrale indipendentemente dalle quantità in deposito;
  • quando il quantitativo di rifiuti in deposito raggiunga complessivamente i 30 mc, di cui al massimo 10 mc di rifiuti pericolosi.

Nel caso invece si tratti di terre e rocce da scavo, i quantitativi sono 4000 mc, di cui non devono essere classificati come pericolose più di 800 mc (art. 23 DPR 120/2017).

La Corte ha inoltre sottolineato come "in tema di gestione dei rifiuti, l'onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità del deposito cosiddetto controllato o temporaneo, fissate dall'art. 183 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, grava sul produttore dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria di tale deposito rispetto alla disciplina ordinaria", secondo un orientamento ormai consolidato (Corte di cassazione, Sez. 3, n. 35494 del 10/05/2016; Corte di Cassazione, sez. 3, n. 20410 del 08/02/2018).

In allegato

La sentenza della Corte di Cassazione n. 43422 del 23 ottobre 2019

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