La Corte di Cassazione, con sentenza n. 29317 del 21 ottobre 2021, ha affermato che non può essere dichiarato nullo un contratto di compravendita se l’immobile non è conforme alla disciplina urbanistica ma sia comunque presente una dichiarazione del venditore che attesti gli estremi del titolo edilizio.
Le norme che si sono succedute nel tempo (dalla Legge n. 10/1977, Legge n. 47/1985 e ora art. 46 DPR n. 380/2001) hanno, infatti, da sempre ritenuto nulli gli atti giuridici aventi ad oggetto edifici realizzati in assenza del titolo abilitativo. Né tali disposizioni possono essere interpretate estensivamente fino a ricomprendere anche l’ipotesi delle costruzione realizzata in difformità dai titoli edilizi (concessione edilizia, permesso di costruire, Scia).
In sostanza la Corte ha evidenziato che, in base alle disposizioni normative che a partire dall’art. 15 della Legge n. 10/1977 hanno regolato le conseguenze sulla validità degli atti di compravendita in caso di omessa indicazione del titolo abilitativo edilizio, si deve prescindere dalla regolarità sostanziale del bene sotto il profilo urbanistico.
La nullità di un atto di compravendita in caso di difformità al titolo edilizio menzionato in esso, non è prevista da alcuna disposizione né tantomeno può essere desunta tramite interpretazione estensiva o analogica in quanto le norme che pongono limiti all’autonomia privata e alla libera circolazione dei beni devono essere sottoposte a stretta interpretazione.
Né, secondo la Cassazione, possono ritenersi applicabili le norme del codice civile che in generale disciplinano la nullità degli atti (artt. 1418 e 1346). In altre parole non è possibile sostenere che il contratto di compravendita, in caso di difformità dal titolo, possa essere nullo per contrarietà a norme imperative e per impossibilità e illiceità dell’oggetto.
La realizzazione dei cappotti termici in condominio può dar luogo a qualche problema laddove comporti una diminuzione della superficie calpestabile sui balconi di proprietà privata.
La questione è se la decisione dell’assemblea, presa con le prescritte maggioranze (che per il Superbonus 110% sono peraltro “semplificate”) possa costringere i condomini a subire il restringimento del proprio balcone.
In linea generale il principio di diritto, ampiamente validato dalla giurisprudenza, è che l'assemblea condominiale non possa disporre anche per quanto concerne beni appartenenti esclusivamente ai singoli condomini.
Deve, quindi, ritenersi nulla una delibera di condominio che approvi di far eseguire un cappotto termico sulla facciata (che è parte comune) ma che vada ad incidere anche sulle proprietà private?
Il Tribunale di Milano con Ordinanza del 13 agosto 2021 n. 30843 ha espresso un principio assolutamente innovativo spingendosi, infatti, ad affermare che l’installazione del “cappotto” sulle facciate risulta funzionale ad un più adeguato uso delle cose comuni e risulta finalizzato al soddisfacimento di interessi “altamente meritevoli di tutela” quale il miglioramento delle prestazioni energetiche dell’edificio complessivamente considerato.
Rispondendo, quindi, ad una esigenza della collettività dei condomini, una minima riduzione della superficie disponibile dei balconi appare irrilevante poiché l’intervento risulta funzionale ad un più adeguato uso delle cose comuni. Se così non fosse occorrerebbe il voto unanime dei condòmini, con conseguente frustrazione della ratio sottesa all'intervento legislativo.
Il Tribunale sottolinea al tempo l’opportunità di esaminare il singolo caso concreto nell'ottica di un contemperamento tra i diversi interessi contrapposti nel solco della c.d. "solidarietà condominiale" più volte affermata dalla Suprema Corte (cfr. da ultimo Cass. 7938/2017).
Sempre sul tema, si segnala una sentenza di alcuni mesi fa del Tribunale di Roma (n. 17997 del 16 dicembre 2020) che ha ritenuto, invece, nulla la delibera che approvando l’esecuzione del cappotto termico con l’istallazione di pannelli isolanti e con spessore variabile, non forniva però la specifica indicazione delle modifiche da eseguire sui balconi di proprietà dei condomini con ciò determinando una lesione del loro diritto di proprietà.
In un contratto di appalto il committente è sempre libero, anche se i lavori sono già iniziati, di esercitare il diritto di recesso che la legge (art. 1671 del codice civile) gli riconosce. L’esercizio del diritto di recesso è svincolato da qualsiasi ipotesi di inadempimento dell’appaltatore e può essere esercitato per qualsiasi ragione che induca il committente a porre fine al rapporto non essendo configurabile un diritto dell’appaltatore a proseguire nell’esecuzione dell’opera. Esso è comunque esercitabile in presenza di fatti, tra cui anche il venire meno della fiducia nei confronti dell’appaltatore che presuppongono un non regolare svolgimento degli accordi presi (Corte appello Roma sez. III, 09/04/2021, n.2601).
Se non diversamente regolato all’interno del contratto di appalto, il recesso unilaterale del committente costituisce esercizio di un diritto riconosciuto dall’ordinamento che come tale non richiede la presenza di una giusta causa. Il committente può recedere dal contratto, anche se è stato dato avvio ai lavori (Tribunale Palermo sez. III, 05/06/2020, n.1638).
Il recesso non può essere fatto valere se i lavori oggetto di appalto siano stati ultimati: è irrilevante il fatto che l’opera non sia stata accettata dal committente. Una volta che i lavori siano finiti il contratto ha ormai esaurito i suoi effetti, essendo stato raggiunto lo scopo per il quale lo stesso è stato sottoscritto. Il recesso comunicato dopo il compimento dell’opera sarà pertanto privo di efficacia e il committente sarà tenuto a corrispondere all’appaltatore il corrispettivo ancora dovuto.
Una volta che il committente abbia comunicato di voler recedere è possibile revocare tale atto giuridico solo in accordo tra le parti, mediante la stipulazione di un nuovo contratto ovvero mediante un atto negoziale in cui si confermi la volontà delle parti di riprendere l’esecuzione delle opere oggetto dell’appalto.
Il committente è libero di esercitare un recesso parziale dal contratto, attraverso la riduzione del quantitativo delle opere originariamente pattuite.
Prima di sottoscrivere il contratto è consigliabile verificare se e come sia stato disciplinato l’esercizio del diritto di recesso. Le parti peraltro possono espressamente escludere l’applicazione dell’articolo 1671 o comunque regolare in maniera più puntuale le ipotesi in cui il recesso da parte del committente sia ammesso. E’ sempre opportuno prevedere, ad esempio, che il recesso venga comunicato con un equo preavviso.
L’aspetto importante è sicuramente quello riguardante l’indennizzo cui ha diritto l’appaltatore che deve essere calcolato sulla base delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno.
Per spese sostenute si fa riferimento ai costi sopportati dall’appaltatore, che non si siano tradotti in lavori eseguiti. In questa voce rientrano, a titolo di esempio: le spese di acquisto e trasporto di materiali che non sono stati utilizzati per la realizzazione delle opere oggetto dell’appalto e che, a seguito del rimborso, diventano di proprietà del committente; le spese per sopralluoghi; le spese per impianti di sorveglianza del cantiere. I lavori già eseguiti devono essere pagati integralmente dal committente in base ai prezzi pattuiti, già comprensivi del guadagno dell'appaltatore. Al riguardo si deve fare riferimento a quelli svolti fino al momento del recesso.
L’indennizzo da mancato guadagno si riferiscen ai lavori rimasti ineseguiti, ed è l’utile netto che l’appaltatore avrebbe avuto da essi se avesse potuto portare a termine l’opera. (Tribunale Latina Sez. I Sent., 27/07/2018).
L'appaltatore, che chiede di essere indennizzato del mancato guadagno, è tenuto a dimostrare quale sarebbe stato l'utile netto da lui conseguibile con l'esecuzione delle opere appaltate, costituito dalla differenza tra il pattuito prezzo globale dell'appalto e le spese che si sarebbero rese necessarie per la realizzazione delle opere (tale prova tuttavia non è facilmente dimostrabile). A tal fine, tuttavia, saranno da escludersi i guadagni ipotetici, perché dipendenti da condizioni incerte. (Cass. Civ., sez. III, 11 ottobre 2018, n. 25160, Cass. Civ., 8 marzo 2018, n. 5613, Cass. Civ., Sez. III, sentenza 3 dicembre 2015 n. 24632).
Le parti possono anche decidere di regolare, in maniera anticipata e forfettaria, l'indennizzo a favore dell'appaltatore. In tal caso occorrerà prestare però particolare attenzione affinchè ciò non porti a una clausola vessatoria che consenta al committente di ridurre a proprio vantaggio l'esborso dovuto all'appaltatore in caso di esercizio del diritto di recesso, soprattutto per quanto concerne la parte relativa al mancato guadagno.
La Corte di Cassazione (Sez. II civ., sent. 17/7/2020, n. 15304) ha avuto modo di chiarire che pur in mancanza di prova da parte dell’appaltatore è ovvio che la parte contrattuale che subisce la interruzione di un rapporto contrattuale in essere, venga privata dell’utile che dall’esecuzione di contratto le sarebbe derivato, a meno che il committente non dimostri che l’impresa abbia reperito un contraente sostitutivo in modo da garantirsi comunque un guadagno.
Va segnalata, infine, una sentenza del Tribunale Napoli, sez. IV, 29/4/2016 ai sensi della quale: se contrattualmente previsto, l’appaltatore può legittimamente rifiutare la consegna del cantiere, anche a seguito dell’esercizio del diritto di recesso unilaterale da parte del committente, sino al versamento integrale degli importi dovuti.
Si evidenzia che nell’ambito dell’appalto un’altra ipotesi di recesso prevista dal codice civile in materia di appalto è quella prevista dall’articolo 1660: “Se le variazioni sono di notevole entità, il committente può recedere dal contratto ed è tenuto a corrispondere un equo indennizzo”. Presupposto fondamentale, dunque, è che le variazioni siano di notevole entità.
Il Ministero della transizione ecologica, con il decreto direttoriale n. 47 del 9 agosto 2021, ha approvato le “Linee guida sulla classificazione dei rifiuti”, predisposte dal Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (SNPA), in attuazione dell’art. 184, comma 5, del D.Lgs. 152/2006 (Codice dell’ambiente).
Le Linee Guida hanno come obiettivo quello di fornire criteri ed indicazioni omogenee per la corretta attribuzione dei Codici EER e l’individuazione delle caratteristiche di pericolo dei rifiuti stessi. Tali operazioni – si ricorda - sono di competenza del produttore del rifiuto.
Nel merito si evidenzia che il provvedimento è suddiviso in 4 capitoli e 4 appendici e contiene:
In allegato le Linee guida per la classificazione dei rifiuti approvate con decreto direttoriale del Ministero per la transizione ecologica n. 47 del 9 agosto 2021.