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Fondo “Salva Opere”: pubblicato il decreto MIT che definisce il primo piano di riparto delle risorse

È stato adottato, da parte della Direzione generale per l'edilizia statale e gli interventi speciali del Ministero dei trasporti e delle Infrastrutture, il decreto Direttoriale numero 8447 del 19 giugno 2020, recante gli " Importi ammessi al Fondo Salva Opere e Primo piano di riparto annualità 2019 e 2020”.

Il piano – che, come si dirà oltre, ora è unico sia per il 2019 che per il 2020 – avrebbe dovuto essere predisposto al massimo entro il 1° aprile 2020. La procedura, tuttavia, ha subito gli effetti del “fermo” amministrativo, a seguito della sospensione dei termini dei procedimenti amministrativi introdotta dall’art. 103 del DL Cura Italia (Dl 18/2020).

Si tratta di un provvedimento fortemente atteso dalle imprese, che detta finalmente il piano di riparto delle risorse – e quindi “sblocca” l’operatività - del c.d. Fondo “salva-opere”, istituito presso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 47, del decreto-legge 30 aprile 2019, n.  34 (cd Decreto “Crescita”), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 giugno 2019, n. 58 (cfr NEWS ANCE ID 36501 del 1° luglio 2019).

Il Fondo, com’è noto, è stato istituito per garantire il completamento delle opere pubbliche e la tutela dei lavoratori, destinando le relative risorse a pagare, nella misura massima del 70 per cento, i crediti rimasti insoddisfatti di sub-appaltatori, sub-affidatari e di sub-fornitori nei confronti dell’appaltatore, ovvero, del contraente generale, laddove entrati in procedura concorsuale, nei limiti della dotazione del Fondo stesso (cfr NEWS ANCE ID 37029 del 10 settembre 2019).

Al riguardo, si segnala che l’art. 201 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34 (decreto cd ”Rilancio”) ha incrementato la dotazione del Fondo di ulteriori 40 milioni di euro per l’anno 2020; che si aggiungono ai 12 milioni euro stanziati per l’anno 2019 e ai 33,5 milioni già previsti per l’anno 2020.

Somme, queste, destinate a “coprire” i crediti insoddisfatti alla data del 30 giugno 2019, in titolarità di soggetti sottoposti a procedure concorsuali aperte dal 1° gennaio 2018 al 30 giugno 2019 (art. 47, comma 1-quinquies, decreto-legge n. 34/2019).

Sul punto, occorre precisare che il Fondo prevede un doppio “binario” di contribuzione:

  1. “a regime”  viene previsto il versamento del contributo pari allo 0,5 per cento dell'importo del ribasso d'asta offerto dall'aggiudicatario, da applicare alle gare di appalti pubblici di lavori, la cui base d'appalto è pari o superiore a euro 200.000,00 e alle gare di appalti pubblici di servizi e forniture connessi alla realizzazione di opere pubbliche, la cui base d'appalto è pari o superiore a euro 100.000,00, bandite a far data dal 30 giugno 2019.

2) vengono poi stanziate delle somme, per gli anni 2019 e 2020, destinate esclusivamente ai crediti insoddisfatti alla data del 30 giugno 2019, in titolarità di soggetti sottoposti a procedure concorsuali aperte dal 1° gennaio 2018 al 30 giugno 2019.

Il decreto “Rilancio” ha, inoltre, previsto che l'erogazione delle risorse in favore dei soggetti titolari dei crediti insoddisfatti di cui al n. 2), debba essere effettuata per l'intera somma spettante, ossia tenendo conto delle risorse stanziate sia per il 2019 sia per il 2020, cosi ripartendo in un’unica “tranche” tutte le somme disponibili – e non più in due fasi come originariamente previsto nel decreto MIT 144/2019.

Ai fini dell’erogazione delle risorse alle imprese, il decreto “Rilancio” ha, infine, esentato il Ministero dalle verifiche di regolarità contributiva ai fini previdenziali, nonché dall’espletamento della procedura per la verifica di cui all’articolo 48-bis del d.P.R. n. 602 del 1973 (verifica di “regolarità fiscale”).

Tenuto conto di tale quadro normativo, la Direzione generale per l'edilizia statale e gli interventi speciali del MIT ha adottato il decreto direttoriale in esame.

Quanto ai contenuti, anzitutto viene precisato che il piano di riparto attiene, esclusivamente, alle risorse già stanziate per le annualità  2019 e 2020, ossia non tiene conto degli ulteriori 40 milioni di euro previsti dal decreto “Rilancio”, rispetto ai quali sarà disposto un ulteriore piano di riparto, una volta che questi saranno stanziati in bilancio.

Dal decreto, inoltre, emerge che:

1.  sono state istruite n. 582 certificazioni pervenute entro il 14 febbraio 2020 e relative ad istanze prodotte entro il 24 gennaio 2020;

2.   per l’ammissione al piano di riparto sono state considerate tutti i crediti le cui istanze di accesso al Fondo sono state presentate entro il 24 gennaio scorso e che sono stati certificati dai soggetti competenti, ossia quei crediti la cui istruttoria si è conclusa con esito positivo (vedi allegato 2 al decreto).

3.   gli ulteriori crediti relativi ad istanze e certificazioni potranno essere inseriti nel prossimo piano di riparto utile a seguito dell’acquisizione della documentazione completa.

In sintesi, l’importo complessivo dei crediti ammessi al fondo (che si ricorda essere pari al 70% del credito richiesto e certificato) è stato di euro 129.763.374,81, somma, questa, che esorbita lo stanziamento attualmente disponibile per le annualità 2019 e 2020, pari ad Euro 45.500.000,00.

Conseguentemente, con tale primo provvedimento, è stato possibile erogare un importo corrispondente al 35% del complessivo ammesso al Fondo; nel prossimo riparto utile, saranno invece erogati i crediti già riconosciuti nel primo piano che, tuttavia, sono rimasti insoddisfatti per carenza di fondi.

Il residuo degli importi ammessi al Fondo per ciascun beneficiario sarà riconosciuto, poi, a valere sulle risorse erogabili con i successivi piani di riparto, in base all'ordine cronologico di ricezione delle certificazioni relative alle istanze prodotte.

Si allega il provvedimento in esame.

2 allegati

DECRETO DIRETTORIALE N. 8447 DEL 19_06_2020
Allegato 1 - Primo piano di riparto

GARE ASMEL, la CGUE: le centrali di committenza sono soltanto pubbliche

1. La vicenda

Con la recente sentenza C-3/19, ASMEL Soc. cons. a r.l vs. ANAC, la seconda sezione della Corte di Giustizia avvia alla conclusione la complessa controversia tra ASMEL S. c. a r.l. e l’ANAC originatasi a seguito dell’adozione della delibera n. 32 del 30 aprile 2015, con la quale l’Autorità ha inibito ad ASMEL lo svolgimento di attività di intermediazione negli acquisti pubblici ed ha ritenuto prive del presupposto di legittimazione le gare già condotte da quest’ultima, per via dell’inosservanza dei modelli organizzativi per le centrali di committenza previsti dal diritto nazionale, ossia, segnatamente, dall’articolo 33, comma 3 bis, del d.lgs. 163/2006 (applicabile ratione temporis alla vicenda in commento).

Ciò, in quanto, a parere dell’ANAC, ASMEL è un soggetto giuridico di natura privatistica, regolato dal Codice civile, laddove per le centrali di committenza viene imposta la forma pubblicistica (ente pubblico ovvero associazione di enti locali, quali unioni e consorzi di Comuni, nelle forme previste dal TUEL) o, in caso di ricorso a soggetti privati con funzioni di centralizzazione degli acquisti, la forma necessaria è quella della società in house, con un raggio di operatività limitato al territorio dei comuni fondatori; ciò, mentre ASMEL non sarebbe sottoposta ad alcun “controllo analogo” da parte delle Amministrazioni servite.

ASMEL ha quindi impugnato tale provvedimento dinnanzi al TAR Lazio, ritenendo di poter assumere il ruolo di soggetto aggregatore di natura sostanzialmente pubblicistica in quanto “organismo di diritto pubblico”; tuttavia, il TAR territoriale ha respinto il ricorso (TAR Lazio – Roma, sez. III – sentenza 22 febbraio 2016 n. 2339), non rilevando in capo ad ASMEL i requisiti dell’organismo di diritto pubblico e confermandone, anzi, l’estraneità ai modelli organizzativi delle centrali di committenza normativamente previsti.

La pronuncia del TAR, quindi, è stata ulteriormente appellata da ASMEL al Consiglio di Stato, sostenendo, in particolare:

da un lato, che il consorzio di diritto privato (forma giuridica di ASMEL Consortile) non presenta incompatibilità con le disposizioni del d.lgs. n. 163/2006 sulle centrali di committenza;

*   dall’altro lato, che la normativa nazionale non impone alcuna limitazione territoriale all’operatività delle centrali di committenza.

Nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale (sez. V – ordinanza 3 gennaio 2019 n. 68), allora, il Consiglio di Stato ha dato immediatamente atto che il d. lgs. n. 163/2006 (all’art. 33, comma 3 bis) prevede che i piccoli comuni possano rivolgersi a centrali di committenza configurate solo secondo due precisi modelli organizzativi, vale a dire quelli dell’unione dei comuni ovvero del consorzio tra enti locali (artt. 31 e 32 TUEL, d.lgs. n. 267/2000).

Ed è proprio intorno a questa limitazione che il Supremo Consesso, dubitando della legittimità comunitaria di tale normativa interna, ha sospeso il giudizio ed ha sottoposto la questione alla Corte di Giustizia, sollevando i seguenti interrogativi:

  1. se la richiamata disposizione del previgente codice, nella parte in cui limita l’autonomia dei comuni nella scelta tra due soli modelli organizzativi (unione di comuni o consorzio tra comuni), è contraria alle norme comunitarie (nello specifico, alla  direttiva 2004/18, laddove prevede la possibilità di ricorrere a centrali di acquisto senza limiti quanto alle forme di cooperazione);
  2. se tale norma confligga con i principi di libera circolazione dei servizi e di massima concorrenza laddove, in relazione al modello organizzativo dei consorzi di comuni, esclude la possibilità di costituire figure di diritto privato (quali il consorzio di diritto comune, con partecipazione anche di soggetti privati);
  3. se la predetta previsione sia in contrasto con i principi di libera circolazione dei servizi e di massima concorrenza, ove interpretata nel senso di consentire alle centrali di committenza di operare nel solo ambito territoriale corrispondente a quello degli enti locali che le hanno istituite.

2. La decisione

In primo luogo, va chiarito che l’art. 33, comma 3 bis del d.lgs. n. 163/2006 è stato, naturalmente, soppiantato dal Codice attualmente vigente e, nella particolare materia de quadall’art. 37, comma 4, d.lgs. n. 50/2016. Tuttavia, quest’ultima norma (sostanzialmente confermativa di quella pregressa) risulta al momento inapplicabile, in quanto temporaneamente sospesa, sino alla fine dell’anno, dal D.L. “Sblocca cantieri” (n. 32/2019).

Per tale ragione, quindi, la Corte di giustizia ha ritenuto che “il procedimento principale resta disciplinato da tale disposizione” (ossia, l’art. 33 del codice previgente), ricusando, così, i dubbi sulla ricevibilità del ricorso manifestati dalla Commissione europea nel corso del giudizio.

Ciò posto, con riferimento alla prima questione, i Giudici comunitari hanno affermato il diritto nazionale è autorizzato a limitare l’autonomia organizzativa degli enti locali, imponendo loro di ricorrere a centrali di committenza secondo soli due modelli di organizzazione, dal momento che l’unico limite che la  direttiva 2004/18 pone all’operatività delle centrali di committenza è che queste presentino la qualità di “amministrazione aggiudicatrice” (e, ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 9, della direttiva 2004/18, con tale espressione vengono designati lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli organismi di diritto pubblico e le associazioni costituite da uno o più di tali enti pubblici territoriali o da uno o più di tali organismi di diritto pubblico).

Da tale rilievo, a parere della Corte, ne consegue che:

  • la scelta di limitare il ricorso alle centrali di committenza a specifici modelli organizzativi rientra nel margine discrezionale proprio di ogni Stato membro; l’unico limite in tal senso imposto è, appunto, che tali modelli rivestano, tutti, la qualità di amministrazione aggiudicatrice;
  • ad un soggetto privo di tale caratteristica la normativa nazionale non può accordare il ruolo di “centrale di committenza”.

Quanto, poi, al secondo interrogativo (che la Corte ha esaminato congiuntamente al primo), i Giudici hanno fatto nuovamente appello all’autonoma discrezionalità degli Stati membri, che ben possono prescrivere modelli di organizzazione di centrali di committenza aventi natura esclusivamente pubblica, senza la partecipazione anche di privati. Ciò, in quanto, essenzialmente:

  • la scelta di modelli pubblicistici può essere funzionale a rispondere ad esigenze peculiari, proprie di ciascuno Stato membro (nel caso di specie, la difesa erariale ha evidenziato la necessità di prevenire il rischio di infiltrazioni mafiose nonché di prevedere uno strumento di controllo della spesa pubblica);
  • in ogni caso, privilegiare modelli organizzativi pubblicistici non viola i principi di libera prestazione dei servizi e di apertura alla concorrenza, in quanto il settore esaminato esula da una logica concorrenziale: le centrali di committenza, avendo natura esclusivamente pubblica, non possono agire come operatori economici, perseguendo interessi commerciali propri secondo criteri lucrativi; pertanto, la normativa nazionale esaminata non falsa in alcun modo il gioco concorrenziale, ed è ben conforme sia alle norme dei trattati che alla direttiva 2004/18.

Con riferimento poi, alla terza questione posta dal giudice del rinvio, anche l’eventuale limitazione dell’ambito di operatività territoriale delle centrali di committenza ai rispettivi territori degli enti locali “fondatori” è – secondo la Corte – comunitariamente compatibile; tale limitazione, infatti:

  • ha lo scopo di assicurare che le centrali di committenza agiscano nell’interesse pubblico degli enti aderenti, e non nel loro proprio interesse commerciale (operando anche al di là delle aree territoriali delle Amministrazioni istitutrici, questo rischio potrebbe sussistere);
  • non creerebbe alcuna “zona di operatività esclusiva” per le centrali di committenza e, per l’effetto, non vi sarebbe pericolo di falsare il gioco concorrenziale, atteso che – come già osservato in merito alla seconda questione – le centrali di committenza prescindono da logiche competitive e di mercato.

3. Conclusioni

Ad ogni modo, la Corte ha stabilito, in conclusione, che il diritto comunitario applicabile al caso di specie (ossia, l’articolo 1, par. 10, e l’articolo 11 della direttiva 2004/18/CE del 31 marzo 2004):

  1. non osta “a una disposizione di diritto nazionale che limita l’autonomia organizzativa dei piccoli enti locali di fare ricorso a una centrale di committenza a soli due modelli di organizzazione esclusivamente pubblica, senza la partecipazione di soggetti o di imprese private”;
  2. non osta neppure “a una disposizione di diritto nazionale che limita l’ambito di operatività delle centrali di committenza istituite da enti locali al territorio di tali enti locali”.

A questo punto, il Consiglio di Stato è chiamato a pronunciarsi nuovamente sulla questione interna di merito, in relazione alla quale sarà tenuto ad applicare i principi di diritto espressi dalla Corte sovranazionale, atteso che, come noto, la decisione della Corte resa in sede di rinvio pregiudiziale è vincolante per il giudice che ha sollevato la questione.

E proprio in relazione alla vicenda interna, è infine opportuno rammentare che la tematica relativa alla legittimazione di ASMEL Consortile ad operare come centrale di committenza è già stata oggetto anche di recenti arresti da parte dei Giudici amministrativi, in particolare ad opera del TAR Lombardia – Milano, sent. n. 240/2020 (NEWS ANCE ID 38422 del 6 febbraio 2020), che ha confermato che ASMEL è priva dei requisiti per potersi qualificare come organismo di diritto pubblico. Alle stesse conclusioni è giunta anche l’ANAC nella delibera n. 179 del 26 febbraio 2020 (NEWS ANCE ID 39818 del 30 APRILE 2020), che ha anche smentito che ASMEL costituisca società in house dei Comuni consorziati.

Riferimenti esterni:

Modello richiesta anticipazione corrispettivo appalto

L’articolo 207 del Decreto Legge 19 maggio 2020, n. 34 ha riconosciuto la possibilità di incrementare l’anticipazione del corrispettivo di appalto, di cui all’art. 35, comma 18, del Codice dei Contratti pubblici (d.lgs. 50/2016), fino ad un importo complessivamente non superiore al 30% del prezzo contrattuale, nei limiti delle risorse annuali stanziate per il singolo intervento a disposizione della stazione appaltante.

Inoltre, ai sensi del comma 2 dell’articolo 207, tale possibilità è riconosciuta anche in favore di appaltatori che abbiano già usufruito di un’anticipazione contrattualmente prevista, ovvero che abbiano dato inizio alla prestazione senza aver usufruito di un’anticipazione. 

Cio' premesso, l’ANCE, al fine di continuare a supportare le imprese associate in questo momento di difficoltà, ha predisposto un modello di richiesta di anticipazione che, naturalmente, andrà adattato e calibrato secondo le specifiche esigenze della singola fattispecie concreta.

1 allegato

Schema rich. anticipazione ex art. 207 DL Rilancio

Illegittimità costituzionale di una norma regionale limitativa della partecipazione

Con sentenza n. 98 del 27 maggio 2020, a seguito di impugnativa governativa, la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il comma 4 dell’art. 10 della Legge regionale della Toscana n. 18/2019, il quale disponeva che “[i]n considerazione dell'interesse meramente locale degli interventi, le stazioni appaltanti possono prevedere di riservare la partecipazione alle micro, piccole e medie imprese con sede legale e operativa nel territorio regionale per una quota non superiore al 50 per cento e in tal caso la procedura informatizzata assicura la presenza delle suddette imprese fra gli operatori economici da consultare”.

In particolare, tale norma è stata ritenuta contrastante con l’art. 117, comma 2, lett. e) Cost., nonché con i principi interposti di libera concorrenza e non discriminazione previsti dal Codice degli appalti.

La Corte ha osservato che, in virtù della disposizione censurata, la stazione appaltante poteva prevedere, nell’ambito delle procedure negoziate per l'affidamento di lavori di cui all'articolo 36 del Codice dei contratti, che un certo numero di offerte (non più del 50 per cento) provenisse da micro, piccole e medie imprese toscane, svincolandosi in tal modo dal rispetto dei criteri generali previsti dalla normativa statale per la selezione delle imprese da invitare (in particolare, proprio dall’art. 36 del Codice e dalle linee guida ANAC approvate con delibera 26 ottobre 2016, n. 1097). Ne derivava la possibilità di invitare alla procedura negoziata imprese toscane che altrimenti sarebbero dovute essere escluse a favore di imprese non toscane, in quanto – in ipotesi – maggiormente qualificate, in violazione della disciplina concorrenziale.

Precisata la portata della disposizione impugnata, essa è stata giudicata costituzionalmente illegittima per violazione della ripartizione di competenze delineata dal comma 2, lett. e) dell’art. 117 della Costituzione, la quale attribuisce potestà legislativa esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza, a cui naturalmente ineriscono le procedure ad evidenza pubblica.

Peraltro, la Corte ha aggiunto che la norma censurata, oltre ad invadere la competenza statale, si pone in contrasto con i principi di non discriminazione e parità di trattamento previsti dalla disciplina sugli appalti, prevedendo la possibilità di riservare un trattamento di favore per le micro, piccole e medie imprese radicate nel territorio toscano.

Segnatamente, è risultata antinomica rispetto ai parametri interposti costituiti dall’art. 30, comma 1 del Codice, in quanto violativa dei principi di libera concorrenza e non discriminazione in esso sanciti, e dall’art. 36, comma 2, dello stesso Codice, poiché introduceva una possibile riserva di partecipazione (a favore delle micro, piccole e medie imprese locali) non consentita dalla legge statale.

Infatti, come detto, le disposizioni del Codice che regolano le procedure di gara sono riconducibili alla materia della tutela della concorrenza, e in tale ambito le Regioni (anche ad autonomia speciale) non possono dettare una disciplina da esse difforme. Ciò vale anche, secondo la giurisprudenza della Corte, per le disposizioni relative ai contratti sotto-soglia (Corte cost. n. 263 del 2016, n. 184 del 2011, n. 283 e n. 160 del 2009, n. 401 del 2007) senza che rilevi la distinzione tra procedura aperta o negoziata (Corte cost. n. 39 del 2020; n. 322 del 2008).

Ciò premesso, in virtù della declaratoria di incostituzionalità, stante l’efficacia erga omnes ed ex tunc delle pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale, devono ritenersi caducate le procedure negoziate avviate dalla Regione Toscana sulla base di tale disposizione e ancora pendenti, fermo restando il limite rappresentato dai c.d. rapporti esauriti.

1 allegato

Corte costituzionale_98_2020 

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