Negli ultimi mesi, il subappalto - istituto fondamentale nell’esecuzione degli appalti pubblici - è stato oggetto di numerosi interventi legislativi e modifiche normative, tra cui quelle riguardanti la variazione del limite quantitativo ammesso e la sospensione dell’indicazione della terna di subappaltatori in gara.
Tali modifiche sono state apportate con l’approvazione del cd. decreto “Sblocca cantieri”, che ha sospeso - fino al 31 dicembre 2020 – anche i commi 2 e 6 dell’art. 105 del Codice dei contratti pubblici (di seguito semplicemente “Codice”), D.Lgs. 50/2016 (cfr. art. 1, co. 18 del D.L. n. 32/2019, convertito con modificazioni dalla legge n. 55/2019).
Ciò, per dare una risposta, transitoria e non esaustiva, alla lettera di costituzione in mora della Commissione europea, inviata al Ministro degli Affari esteri e della Cooperazione Internazionale il 24 gennaio 2019 (rif. proc. infrazione n. 2018/2273).
Successivamente a tali modifiche, sono intervenute anche tre nuove pronunce della Corte di Giustizia europea, che hanno stabilito nel dettaglio su quali aspetti la normativa nazionale del subappalto deve ritenersi in contrasto con la direttiva 2014/24/UE del 26 febbraio 2014.
Tali sentenze hanno avuto (e stanno avendo) un grande impatto su stazioni appaltanti, giudice nazionale e ANAC.
In mancanza di chiare indicazioni normative, i soggetti di volta in volta interessati hanno quindi affrontato la problematica del subappalto, con esiti alterni, confermando la difficoltà di raggiungere una coerenza tra la disciplina nazionale ed quella europea.
Le censure alla disciplina italiana, contenute nella citata lettera di messa in mora inviata dalla Commissione Europea e relative al subappalto, riguardavano:
Tali censure hanno portato la Corte di giustizia a ribadire che molte delle relative disposizioni contenute nel Codice dei contratti non sono in linea con il diritto europeo in tema di appalti pubblici
Successivamente alla lettera di costituzione in mora, la Corte di Giustizia Europea si è pronunciata, in tema di limiti al subappalto, nelle sentenze “Vitali”, del 26 settembre 2019 (causa C-63/18), e “Tedeschi”, del 27 novembre 2019 (causa C-402/18, ma vedi anche sentenza CGUE del 14 luglio 2016, Wroclaw - Miasto na prawach powiatu, C-406/14, , richiamata in entrambe le sentenze).
In particolare, a fronte di tale disallineamento, nella prima sentenza “Vitali” di settembre, la Corte europea si è concentrata sul limite del 30% al subappalto, sul presupposto che siffatto limite «può rendere più difficoltoso l’accesso delle imprese, in particolar modo di quelle di piccole e medie dimensioni, agli appalti pubblici, così ostacolando l’esercizio della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi».
Nella stessa sentenza, la CGUE evidenzia altresì che «le amministrazioni aggiudicatrici devono rispettare i principi di aggiudicazione degli appalti di cui all’articolo 18 della direttiva 2014/24, tra i quali figurano … i principi di parità di trattamento, di trasparenza e di proporzionalità».
Conseguentemente, la direttiva 2014/24/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale «vieta in modo generale e astratto il ricorso al subappalto che superi una percentuale fissa dell’appalto pubblico … indipendentemente dal settore economico interessato dall’appalto di cui trattasi, dalla natura dei lavori o dall’identità dei subappaltatori. Inoltre, … non lascia alcuno spazio a una valutazione caso per caso da parte dell’ente aggiudicatore» (cfr. C-63/18 cit.).
Nella seconda sentenza “Tedeschi” di novembre, la CGUE conferma al stessa posizione sui limiti al subappalto previsti dal Codice (cfr. art. 105, co. 14 del Codice), aggiungendo un’ulteriore considerazione in merito al rapporto tra limite percentuale del 30% della commessa e il legittimo obiettivo del contrasto al fenomeno dell’infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici.
In particolare, nella sentenza si evidenzia che «anche supponendo che una restrizione quantitativa al ricorso al subappalto possa essere considerata idonea a contrastare siffatto fenomeno, una restrizione come quella oggetto del procedimento principale eccede quanto necessario al raggiungimento di tale obiettivo».
Con ciò evidenziando non l’astratta possibilità di porre un limite quantitativo, ma l’eccessività del Codice dei contratti «che limita al 30% la quota parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi».
Nella stessa sentenza la Corte ha, altresì, dichiarato l’illegittimità della predetta disciplina laddove «limita la possibilità di ribassare i prezzi applicabili alle prestazioni subappaltate di oltre il 20% rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione», in quanto si tratta di strumento che eccede rispetto alla necessità di assicurare la tutela salariale dei lavoratori impiegati nel subappalto.
Nonostante tali chiare indicazioni della Unione europea, il Legislatore italiano non ha rimosso i limiti al subappalto; sul tema è quindi intervenuto in due distinte occasioni il Consiglio di Stato.
In particolare, in un prima sentenza, il Collegio ha chiarito che il 30% «dell’importo complessivo del contratto di lavori, servizi o forniture», nella formulazione dell’art. 105, co. 2 del Codice, applicabile ratione temporis, ossia quella anteriore al decreto “sblocca cantieri”, deve ritenersi superato per effetto delle citate sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea (cfr. Sez. V, 16 gennaio 2020, n. 389 e, id., 17 dicembre 2019, n. 8535).
L’orientamento del Consiglio di Stato segue ad una prima pronuncia del TAR, in cui era stato evidenziato che il limite del 30% non può più ritenersi applicabile “a priori” al subappalto, ma deve «comunque essere valutato in concreto se il ricorso al subappalto abbia effettivamente violato i principi di trasparenza, di concorrenza e di proporzionalità» (cfr. TAR Lecce, 5 dicembre 2019, n. 1938, in cui veniva dichiarato illegittimo il subappalto per il solo elemento “quantitativo” di aver superato il 90% delle prestazioni oggetto dell’appalto).
In tal caso, l’amministrazione sembrerebbe chiamata all’assunzione di una rilevante responsabilità, laddove deve valutare caso per caso l’ammissibilità in concreto del subappalto richiesto, a prescindere da ogni automatismo e dal mero richiamo al superamento di un certo valore-soglia, motivando l’eventuale necessario mantenimento di una certa quota del contratto in capo all’appaltatore.
A tale proposito, come sopra accennato, è altresì da considerate che il cd. decreto “Sblocca cantieri”, nell’intento di superare le censure della Ue sui suddetti limiti al subappalto, ha sospeso per tutto il 2020 il limite del 30%, sancendo che questo è indicato dalle stazioni appaltanti nel bando di gara e non può superare la quota del 40% dell’importo complessivo del contratto.
Rimane, quindi, dubbio se anche questo limite, così imposto in via generale, debba ritenersi superato in seguito alle citate sentenze del CGUE, «alla luce della peculiare efficacia erga omnes delle pronunce della Corte di Giustizia» (cfr. TAR Lazio, sez. II-bis, 23 dicembre 2019, n. 14796, che tuttavia non ha approfondito tale possibilità).
Su tale ricostruzione, estensiva della portata della censura della UE, apparentemente coerente con l’obbligo di disapplicazione delle norme interne in contrasto con i principi e le direttive comunitarie, non sembra concordare l’ANAC.
Nel comunicato del Presidente dell’Autorità del 23 ottobre 2019 (ossia a cavallo delle due sentenze della CGUE), l’ANAC ha ritenuto tuttora applicabile il limite generale del subappalto di cui alla legge n. 55/2019, pari al 40% dell’importo complessivo del contratto (cfr. “Prime indicazioni per l’aggiornamento del Bando-tipo n. 1”, paragrafo 9 “Subappalto”, pag. 22).
Secondo tale ricostruzione, la disciplina del subappalto non può essere considerata materia regolamentabile attraverso la lex specialis da ciascuna stazione appaltante, ma deve essere il Legislatore a definire una giusta e adeguata compensazione tra le “libertà” comunitarie e le esigenze nazionali di prevenzione e contrasto al fenomeno criminoso (cfr. Atto di Segnalazione del 13 novembre 2019).
Ne consegue, secondo l’ANAC, che occorre una urgente modifica normativa inerente la disciplina del subappalto affinché la disciplina nazionale sia riportata in sintonia con i principi stabiliti dal legislatore e dal Giudice europeo, e, in tal senso, potrebbero arrivare novità con la prossima Legge di delegazione Europea.
Come accennato, fino al 31 dicembre 2020 è sospesa l’applicazione del comma 6 dell’art. 105 e del terzo periodo del comma 2 dell’art. 174, ossia l’indicazione della terna di subappaltatori, rispettivamente negli appalti e nelle concessioni.
Assieme a tale sospensione, sono altresì sospese le verifiche, in fase di gara, sui requisiti generali dei soggetti indicati nella terna di subappaltatori (art. 80, commi 1, 2 e 5). Conseguentemente, l’amministrazione aggiudicatrice non è nelle condizioni di escludere dal procedimento l’offerente che abbia espresso la propria intenzione di avvalersi di un subappaltatore nei cui confronti sussiste un motivo di esclusione.
Tale disposizione è stata oggetto di interesse da parte della Corte di Giustizia Europea, che ne ha valutato la compatibilità con il diritto dell’Unione nella sentenza “Tim SpA”, del 30 gennaio 2020 (causa C-395/18).
Secondo la CGUE, in linea di principio, l’articolo 57, paragrafo 4, lettera a), della direttiva 2014/24/UE non osta ad una normativa nazionale, in virtù della quale l’amministrazione “abbia la facoltà, o addirittura l’obbligo, di escludere l’operatore economico che ha presentato l’offerta dalla partecipazione alla procedura di aggiudicazione dell’appalto qualora nei confronti di uno dei subappaltatori menzionati nell’offerta di detto operatore venga constatato il motivo di esclusione previsto dalla disposizione sopra citata”.
Per contro, tale disposizione, “letta in combinato disposto con l’articolo 57, paragrafo 6, della medesima direttiva, nonché il principio di proporzionalità, ostano ad una normativa nazionale che stabilisca il carattere automatico di tale esclusione” del concorrente a causa della violazione commessa da un subappaltatore.
Infatti, tale automatismo priva, da un lato, l’operatore economico della possibilità di dimostrare la propria affidabilità malgrado l’esistenza di una violazione compiuta da uno dei suoi subappaltatori e, dall’altro, l’amministrazione aggiudicatrice della possibilità di disporre di un margine di discrezionalità al riguardo.
La CGUE ha quindi confermato, in modo indiretto, le perplessità espresse già nel 2016 dal Consiglio di Stato, secondo cui occorreva dare un’interpretazione comunitariamente orientata dell’art. 80, commi 1 e 5, del D.Lgs. n. 50 del 18 aprile 2016 (cfr. parere n. 2286/2016, fatto proprio dall’ANAC nella delibera n. 487 del 3 maggio 2017).
Antecedente alla suddetta sentenza “TIM SpA” della CGUE, il giudice nazionale aveva già ritenuto, in più occasioni, che il riscontro di una causa di esclusione in capo ad uno dei subappaltatori nell’ambito di una terna non potesse integrare, di per sé, un valido motivo di immediata esclusione dalla procedura (cfr., da ultimo, TAR Lazio Roma, sez. III, 27 gennaio 2020, n. 1084, che richiama T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. II, n. 1122/2018).
L’esclusione dalla gara viene, infatti, considerata dal legislatore come provvedimento di extrema ratio, da adottarsi solo in quelle ipotesi in cui la causa di esclusione non risulti altrimenti rimuovibile mediante il ricorso a differenti strumenti, quale, ad es., la sostituzione dell’impresa subappaltatrice.
Ciò, in ragione di una interpretazione comunitariamente orientata dell’art. 80, comma 5, del Codice, secondo cui “quando è fornita una terna di possibili subappaltatori, è sufficiente ad evitare l’esclusione del concorrente che almeno uno dei subappaltatori abbia i requisiti e sia qualificato per eseguire la prestazione da subappaltare, ovvero che il concorrente dichiari di rinunciare al subappalto, avendo in proprio i requisiti per eseguire le prestazioni” (cfr. Consiglio di Stato, parere del 3 novembre 2016, n. 2286, fatto proprio dall’ANAC nella delibera del 3 maggio 2017, n. 487, nonché T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I, n. 1096/2018).
Da notare che tale problematica sembrerebbe trovare definitiva soluzione con la Legge di delegazione Europea, ove, nelle prime bozze, sono modificati gli articoli 105 e 174 del Codice Appalti, eliminando l’obbligo di indicazione anticipata della terna di subappaltatori, rispettivamente nei contratti di appalto e di concessione.
La giurisprudenza è recentemente intervenuta anche su altri aspetti riguardanti il limite quantitativo al subappalto, escludendo che questo possa applicarsi in caso di sub-affidamento all’impresa ausiliaria e meglio definendo l’eccezione prevista per i contratti continuativi di cooperazione.
Il Codice chiarisce che, anche nell’avvalimento, l’appalto «è in ogni caso eseguito dall’impresa che partecipa alla gara, alla quale è rilasciato il certificato di esecuzione» (art. 89, co. 8 del Codice).
Coerentemente, è stato osservato che l’impresa appaltatrice è, infatti, l’unica responsabile dell’esecuzione del contratto, mentre le prestazioni in concreto svolte dall’ausiliaria sono comunque riconducibili all’organizzazione predisposta dalla prima (vedi anche Cons. St., Sez. V, 16 marzo 2018, n. 1698).
Ne consegue che, secondo il Consiglio di Stato, «l’impresa ausiliaria può assumere il ruolo di subappaltatore nei limiti dei requisiti prestati», indipendentemente dalla permanenza nel nostro ordinamento di eventuali limiti quantitativi al subappalto (Sez. V, 16 gennaio 2020, n. 389, con riferimento all’ art. 89, co. 8 cit.).
A confermare tale interpretazione, vi è la diversità implicita tra l’istituto del subappalto e quello avvalimento, che impedisce di operare una commistione tra i due istituti; tanto che non può dirsi applicabile in via analogica altro limite, che si aggiunga a quello dei citati «requisiti prestati», diretto a garantire che all’impresa ausiliaria non siano in concreto affidate prestazioni eccedenti la propria capacità tecnica (Cons. Stato, sez. V, 17 dicembre 2019, n. 8535).
Con il suddetto orientamento trova riconoscimento, seppure a distanza di anni, la lettura dell’ANCE in merito alla disciplina dell’avvalimento di cui agli allora vigenti artt. 49 e 50 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (cfr. consultazione dell’AVCP, ora ANAC, on line del 16 gennaio 2012, poi confluita nella Determinazione ANAC n. 2 del 1° agosto 2012).
I Contratti Continuativi di Cooperazione o “co.co.co”, di cui all'art. 105 comma 3, lett. c- bis) del Codice, sono stati spesso affrontati in giurisprudenza come un potenziale mezzo per l'affidamento di prestazione a terzi fuori dai limiti del subappalto.
Infatti, il Codice stabilisce che non si configurano come attività affidate in subappalto, e quindi non sono soggette agli stessi limiti, «le prestazioni rese in favore dei soggetti affidatari in forza di contratti continuativi di cooperazione, servizio e/o fornitura, sottoscritti in epoca anteriore all’indizione della procedura, finalizzata all’aggiudicazione dell’appalto» (art. 105, comma 3 cit.).
A fronte di una aperto contrasto giurisprudenziale sulla portata di tale eccezione, sembrerebbe tuttavia divenuta prevalente un’interpretazione restrittiva di tale istituto, che esclude qualsiasi sovrapposizione con le prestazioni rese in regime di subappalto (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 24 gennaio 2020, n. 607, id., 27 dicembre 2018, n. 7256; contra, ex multis, Consiglio di Stato, sez. III, 18 luglio 2019, n. 5068).
Infatti, secondo tale orientamento, i contratti continuativi di cooperazione si distinguono dal subappalto, per due caratteristiche:
Applicando le citate coordinate ermeneutiche alla fattispecie dei contratti continuativi di cooperazione, sembrerebbe, quindi, essersi chiusa qualsiasi possibilità di aggiramento dei limiti quantitativi al subappalto attraverso tale istituto.
Sarà quindi determinante la scelta del Legislatore italiano in merito ai futuri ed eventuali limiti al subappalto.
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Riferimenti esterni
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Il TAR Lombardia – Milano, sez. II, il 3 febbraio u.s., con sentenza n. 240/2020, ha (tra le altre statuizioni) ribadito l’illegittimità delle clausole dei bandi che pongano, a carico dell’aggiudicatario, il pagamento di un determinata somma a titolo di corrispettivo, in favore di ASMEL, nell’ambito delle gare telematiche svolte sulla piattaforma di e-procurement appartenente a quest’ultima, Asmecomm. Nel caso di specie, peraltro, si trattava di una somma particolarmente consistente (80,000 Euro oltre IVA).
Nella vicenda in esame, è stata l’ANAC ad aver proposto impugnazione avverso un bando di gara avente ad oggetto una procedura aperta per l'affidamento di una o più Convenzioni Quadro (della durata di 18 mesi, con ulteriori successivi 18 mesi in opzione), per la fornitura di apparecchi per illuminazione pubblica, dispositivi per il telecontrollo/telegestione e accessori smart city per gli Enti associati ASMEL.
Infatti, in questo caso, il soggetto aggiudicatore era la stessa ASMEL – Associazione per la Sussidiarietà e la Modernizzazione degli Enti Locali.
La pronuncia segue l’adozione dell’ordinanza cautelare 2 novembre 2019, n. 1446, emessa dal TAR nell’ambito dello stesso giudizio, in cui veniva già riconosciuta la sussistenza del fumus in ordine alle richieste avanzate dall’ANAC all’interno del ricorso.
Ora, con questa pronuncia di merito, il Tribunale lombardo non soltanto conferma e spiega quanto aveva già lasciato intendere in sede cautelare, ma si pone in totale continuità (per il profilo che qui maggiormente interessa) con quanto già statuito dal TAR Lecce, nella sentenza n. 1664, del 31 ottobre 2019, che i Giudici milanesi citano più volte espressamente.
Con il provvedimento in commento, quindi, il TAR Milano accoglie integralmente le richieste mosse dall’ANAC, la quale, nel proprio ricorso, aveva evidenziato la contrarietà all’articolo 23 della Costituzione e all’articolo 41, comma 2-bis, del Codice dei contratti pubblici, del disciplinare di gara, laddove impone ai concorrenti di corredare l’offerta di un atto unilaterale d’obbligo mediante il quale impegnarsi, in caso di aggiudicazione, a versare ad ASMEL la rilevante somma di 80,000 Euro oltre IVA, “indipendentemente dal plafond assegnato”.
In particolare, la pronuncia in commento sancisce chiaramente che “Simile corrispettivo sembra concretare - in assenza di espressa copertura legislativa specifica - una violazione di legge (art. 41, comma 2 bis del Decreto Legislativo n. 50/2016 e art. 23 della Costituzione)”, richiamando esplicitamente, come anticipato, la citata sentenza del TAR leccese.
In aggiunta a tale, fondamentale conferma, tuttavia, il TAR lombardo confuta un ulteriore argomento difensivo dedotto da ASMEL quale giustificativo dell’addebito economico in parola, ossia la sussistenza di una previsione legislativa generale nell’articolo 16-bis del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, (secondo cui “le spese di copia, stampa, carta bollata e tutte le altre inerenti ai contratti sono a carico dei contraenti con l’amministrazione dello Stato”).
Nel novero di tale disposizione, secondo il TAR, non può essere ricompreso l’onere di gestione delle piattaforme telematiche di negoziazione, “sia per la consistenza dell’importo, che non è neppure rapportato alle spese, sia perché l’applicazione di tale normativa non necessiterebbe di un atto unilaterale d’obbligo che, evidentemente, mira al fine ulteriore e diverso della remunerazione per l’attività svolta nell’interesse dei Comuni aderenti”.
Pertanto, la riserva di legge che l’art. 23 della Costituzione richiede non può dirsi soddisfatta, con conseguente persistenza nella violazione sia di quest’ultima norma, sia dell’art. 41 del Codice dei contratti pubblici.
Peraltro, val la pena notare che il TAR ammette espressamente che le somme versate dagli aggiudicatari devono “considerarsi come una parte certamente non irrilevante del finanziamento dell’attività specifica” svolta da ASMEL.
L’altro aspetto toccato dalla sentenza in commento è relativo alla stessa legittimazione di ASMEL ad operare quale Centrale di committenza in favore dei Comuni consorziati. Infatti, rilevano i Giudici amministrativi, sebbene ASMEL ritenga di avere natura di organismo di diritto pubblico, essa è priva dei requisiti per potersi qualificare come tale. Ed infatti:
Pertanto, conclude sul punto il TAR, deve escludersi che ASMEL “operi nel caso di specie come organismo di diritto pubblico e, quindi, che Asmel Associazione sia munita di legittimazione a svolgere le funzioni di centrale di committenza”.
Le conclusioni raggiunte dalla sentenza in commento rappresentano un’ulteriore ed autorevole conferma di quanto – ormai, da tempo – sostenuto da ANCE. In particolare, l’Associazione si è sempre battuta, presso tutte le autorità competenti, per far rilevare e dichiarare l’illegittimità di qualsiasi addebito a danno degli aggiudicatari delle gare, trovando sempre riscontri positivi, sia presso l’ANAC, sia in sede giurisdizionale.
Inoltre, non può non essere evidenziato il ruolo dell’ANAC, che, in questa vicenda, ha deciso di “scendere in campo” in prima persona, prima, inoltrando ad ASMEL un parere ex art. 211, comma 1-ter, del Codice dei contratti pubblici (nel quale venivano rilevate le criticità sopra esposte) e, in seguito, a causa dell’inottemperanza di ASMEL alle prescrizioni di tale provvedimento, impugnando direttamente il bando, in applicazione, stavolta, dell’art. 211, comma 1-bis, dello stesso D.lgs. n. 50/2016.
Poteri, questi, sinora utilizzati dall’Autorità con oculata parsimonia.
Pertanto, la scelta dell’ANAC di esercitarli proprio in questo caso, rivela certamente una decisa presa di posizione dell’Autorità di vigilanza sulla tematica dei costi di gestione delle gare telematiche, oltre all’elevatissima urgenza del problema.
Infine, il TAR, accogliendo il ricorso dell’ANAC, conclude annullando il bando, unitamente a tutti gli altri documenti di gara e gli altri atti comunque connessi.
Si allega la sentenza in commento.
L’Ance riassume la normativa in tema di realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo del contributo di costruzione contenuta nel Testo Unico Edilizia e nel Codice appalti.
3 allegati
News ANCE_Il quadro delle regole
Opere a scomputo_norme_stralcio
ANAC_Linee guida n_4
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La Corte di Giustizia Europea, con la sentenza del 27 novembre 2019 (sent. Tedeschi), è tornata a pronunciarsi sulla delicata questione concernente la compatibilità con il diritto europeo dei limiti previsti dalla normativa nazionale in tema di subappalto.
In particolare, nell’ambito di una causa riguardante un appalto di servizi di pulizia (C- 402/18), la Corte è stata investita dal Consiglio di Stato del compito di esprimersi, in via pregiudiziale, sulla conformità al diritto europeo di due limiti presenti nella normativa nazionale:
1) il limite del 30% , quale quota massima subappaltabile dall’affidatario a terzi;
2) il limite del 20%, quale ribasso massimo praticabile al subappaltatore sui medesimi prezzi risultanti dall’aggiudicazione.
In entrambi i casi ,è stata riconosciuta l’incompatibilità della disciplina interna rispetto ai principi europei e alla normativa contenuta nelle direttive appalti.
Il terreno di ragionamento della Corte di Giustizia è stato quello del precedente Codice Appalti (art. 118, d.lgs. 163/2006) e della precedente Direttiva 2004/18, trattandosi di una vicenda giudiziale scaturita da un bando del dicembre 2015.
In ogni caso, la pronuncia afferma principi pienamente compatibili anche con la normativa vigente (nuovo Codice 50 e nuova Direttiva 2014/24)
Si ripotano di seguito le principali motivazioni formulate dalla Corte.
*** *** ***
Per quanto riguarda la questione sub 1), concernente il limite del 30% come quota massima subappaltabile a terzi, la Corte ha sostanzialmente confermato quanto già sancito nella recente sentenza “Vitali” del 26 settembre scorso (C-63/18).
In particolare, è stato ribadito che la previsione di un limite generale ed astratto del 30%, a prescindere dalla possibilità di verificare la capacità dei subappaltatori e il carattere essenziale degli incarichi subaffidati, non risulta compatibile con il diritto europeo per tre principali ragioni:
- l’esigenza (sostenuta dal governo italiano) di prevenire in tal modo le infiltrazioni mafiose nel settore degli appalti, non può comunque condurre all’introduzione di regole contrarie ai principi generali del Trattato sull’Unione Europea (libertà di stabilimento, libera prestazione di servizi, proporzionalità);
- anche supponendo che tale limite sia funzionale all’obiettivo di tutelare la legalità nel settore, la norma nazionale sembra eccedere tale finalità, in quanto il divieto è generalizzato, e quindi si applica indipendentemente dalla possibilità per le amministrazioni di valutare il settore economico interessato, la natura dei lavori e l’identità dei subappaltatori;
- diritto italiano già prevede numerose misure finalizzate ad impedire l’accesso alle gare di imprese sospette di condizionamento mafioso e non risulta in alcun modo dimostrato dal governo italiano che tali norme non possano essere attuate in modo efficace.
Tutto ciò premesso, secondo la Corte, la direttiva 2004/18 deve essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale (come quella italiana) limitare al 30% la quota parte di appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi.
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Anche con riferimento alla questione sub 2), riguardante l’impossibilità di ribassare i prezzi applicabili al subappaltatore oltre il limite del 20%, la Corte ha riconosciuto l’incompatibilità della norma nazionale con il diritto europeo.
Le argomentazioni addotte a sostegno di tale conclusione sono così sintetizzabili:
- - il limite del 20% di ribasso non può essere giustificato con l’esigenza di assicurare ai lavoratori utilizzati nel subappalto una tutela salariale minima, in quanto la sua applicazione risulta generalizzata e, quindi, prescinde da qualsiasi valutazione sulla tutela sociale, peraltro già garantita agli stessi da leggi, regolamenti e contratti collettivi, sul cui rispetto l’aggiudicatario è responsabile in solido con il subappaltatore;
- - tale limite non può essere giustificato nemmeno con l’esigenza di garantire la redditività dell’offerta e la corretta esecuzione dell’appalto, dal momento che nel diritto italiano esistono altre misure deputate a tale fine, quali la verifica sulla capacità e affidabilità del subappaltatore, prima che esegua la prestazione, nonché la possibilità per l’amministrazione di rifiutare eventuali offerte anormalmente basse;
- - infine, il limite non può trovare giustificazione nell’esigenza di rispettare il principio della parità di trattamento in quanto, la mera circostanza che un offerente sia in grado di limitare i propri costi in ragione dei prezzi che negozia con i subappaltatori, non viola di per sé tale principio, contribuendo piuttosto ad una concorrenza rafforzata e, dunque, all’obiettivo perseguito dalle direttive adottate in materia di appalti.
Tutto ciò premesso, secondo la Corte, la direttiva 2004/18 deve essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale (come quella italiana) limitare la possibilità di ribassare i prezzi applicabili alle prestazioni subappaltate oltre il 20% rispetto ai prezzi risultanti dall’aggiudicazione.
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