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Traffici delittuosi, vivere onestamente e rispetto leggi: l’eccessiva genericità è incostituzionale

Con le pronunce in commento la Corte costituzionale (27 febbraio 2019, nn. 24 e 25) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale le disposizioni del “Codice antimafia” (d.lgs. n. 159/2011) che, da un lato, consentono l’applicazione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, del sequestro e della confisca dei beni anche ai soggetti che “debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dedite a traffici delittuosi” e, dall’altro lato, configurano reati ad hoc nei casi d’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi” contenute nei provvedimenti che comminano la misura della sorveglianza speciale, sia con obbligo o divieto di soggiorno, sia senza.
 
La censura mossa dalla Corte è la medesima: l’eccessiva vaghezza del precetto, che non consente ai destinatari di valutare ex ante la liceitàdelle proprie condotte, violando, così, il principio di legalità.
 
1. Premessa
1.1  Le misure di prevenzione nel Codice antimafia
Le censure di incostituzionalità in commento hanno avuto ad oggetto le misure di prevenzione, personali e patrimoniali, previste dal d.lgs. n. 159/2011, cd “Codice antimafia” e, in particolar modo, la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza (misura personale), il sequestro e la confisca (misure patrimoniali).
 
Le misure in questione, slegate dal procedimento penale ed applicate secondo i dettami ad hoc prescritti dal Codice antimafia, contemplano, come presupposti applicativi:
· La pericolosità sociale della persona;
· L’attualità della pericolosità.
· La riconducibilità della persona ad una delle categorie di pericolosità delineate dal legislatore.
 
La pericolosità, dunque, rappresenta il requisito fondamentale per l’applicazione delle misure di prevenzione, le quali non necessitano dell’accertamento della responsabilità per un fatto di reato, ma costituiscono, piuttosto, la reazione dell’ordinamento all’accertamento della pericolosità sociale del soggetto.
 
A proposito di tale requisito, il Codice antimafia distingue, oggi, tra due macrocategorie: pericolosità “generica” e pericolosità “qualificata”.
 
La prima (oggetto delle censure di incostituzionalità in commento) trova sede nell’art. 1 del Codice, ed è desunta dall’abitualità ai traffici delittuosi, dalla condotta di vita con i proventi di attività delittuose, nonché dalla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.
 
Diversamente, la categoria dei pericolosi “qualificati” comprende soggetti indiziati di reati ben più gravi, specificamente individuati dall’art. 4 del Codice.
 
Il tratto differenziale più evidente è rappresentato dalla formulazione – generica ed indefinita – delle categorie di cui all’art. 1 e di quelle indicate nell’art. 4 – laddove i destinatari delle misure sono individuati in base all’indiziazione per reati precisamente descritti. Tra questi ultimi figura, in particolare (oltre all’associazione a delinquere di stampo mafioso, ex art. 416-bis c.p.), l’associazione a delinquere “semplice” (ex art. 416 c.p.), quando finalizzata alla commissione di un ampio novero di reati contro la PA, e tra i quali spiccano, in particolare, le diverse fattispecie di corruzione previste dal codice penale (artt. 318 e ss. c.p., ex art. 4, lett. i-bis, Codice antimafia, recentemente introdotta ad opera della l. n. 171/2017).
 
 
1.2 Misure di prevenzione e giurisprudenza CEDU
Entrambe le sentenze in commento rappresentano, a ben vedere, il naturale precipitato, sul piano interno, dell’orientamento della Corte EDU espresso nella pronuncia della Grande Chambredel 23 febbraio 2017, de Tommaso c. Italia, atteso che oggetto di quest’ultima risultano essere gli stessi profili critici successivamente sviluppati dagli arresti costituzionali in commento.
 
Con tale arresto, i Giudici di Strasburgo hanno affrontato il caso di un ricorrenteche aveva dedotto, sotto diversi profili, l’illegittimità delle misure preventive personali della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, dell’obbligo di residenza e delle ulteriori prescrizioni che erano state inflitte nei propri confronti dall’autorità giudiziaria italiana per un periodo di due anni, sulla base della riconduzione del soggetto destinatario alla categoria dei soggetti a pericolosità “generica”.
 
In quella occasione la Corte sovranazionale ha sancito la non conformità ai principi convenzionali (ed in particolare all’art. 2 Prot. 4 CEDU, in tema di libertà di circolazione) della disciplina interna regolante per l’appunto le categorie di soggetti a pericolosità generica sottoponibili a misura preventiva (nn. 1 e 2 dell’art. 1 della l. 27 dicembre 1956, n. 1423), avendo constatato un difetto di determinatezza e precisione delle disposizioni regolatrici, sia in ordine ai criteri per la riconducibilità del singolo alle categorie pericolose sia per quanto concerne il contenuto precettivo delle misure – nel caso di specie erano state irrogate le prescrizioni che stabilivano di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, previste dall’art. 5 della l. n. 1423/1956; norma, quest’ultima, applicata ratione temporis ma abrogata dal d.lgs. n. 159/2011, c.d. “Codice antimafia”, e che, tuttavia, è stata integralmente replicata nell’art. 1 della normativa da ultimo citata.
 
 
2. Le pronunce della Corte costituzionale
Con la sentenza n. 24 – adottata a seguito delle ordinanze di rimessione adottate dai Tribunali di Udine e Padova e dalla Corte d’appello di Napoli – la Corte costituzionale ha inciso su una delle ipotesi di pericolosità “generica”, avendo sancito l’incompatibilità con la Carta fondamentale dell’applicazione della sorveglianza speciale – misura di prevenzione personale –, del sequestro e della confisca – misure di prevenzione patrimoniali –, nel caso previsto dall’art. 1, lett. a), del d.lgs. n. 159/2011 (cd “Codice antimafia”), secondo il quale la sorveglianza speciale il sequestro e la confisca possono essere applicate, tra gli altri, anche a coloro che “debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi”.
 
Ciò in quanto, a parere del Giudice delle leggi, l’espressione “traffici delittuosi” sconta un’eccessiva indeterminatezza descrittiva – non sanata neppure dalla giurisprudenza, che risulta, sul punto, discorde – che, in concreto, non permette di individuare quali condotte criminose possano legittimare l’applicazione delle misure di prevenzione – personale e patrimoniale – della sorveglianza speciale, del sequestro e della confisca dei beni.
 
Questa carenza di precisione nella formulazione normativa si traduce nella violazione del principio di legalità e, ancor più nel particolare, del principio di tassatività (o di determinatezza) nella formulazione norme penali – corollario del primo, in forza del quale ogni misura restrittiva della libertà personale o della proprietà dell’individuo deve non soltanto fondarsi su una norma di legge, ma questa deve predisporne, con sufficiente chiarezza e precisione, anche i presupposti applicativi, in modo tale da garantire (tra gli altri effetti) l’autodeterminazione consapevole dei consociati e quindi di una piena comprensione, da parte di costoro, delle conseguenze derivanti da un’eventuale condotta contra ius.
 
In particolare, i parametri costituzionali considerati sono:
·  l’art. 117, primo comma, Cost. – in relazione all’art. 2 Prot. add. n. 4 CEDU (“libertà di circolazione”), l’art. 25, terzo comma, e l’art. 13 Cost., per quanto riguarda la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza;
·   l’art. 117, primo comma, Cost. – in relazione all’art. 1 Prot. add. CEDU (“proprietà privata”) – e l’art. 42 Cost., relativamente al sequestro e alla confisca.
 
Peraltro, la Corte coglie l’occasione per chiarire espressamente che la sanzione d’incostituzionalità non tocca le norme che consentono di applicare le misure di prevenzione nei casi di “pericolosità qualificata” dei destinatari, di cui all’art. 4 del Codice antimafia (tra i quali, gli indiziati di delitti di mafia, terrorismo, violazioni della disciplina sulle armi, violenza sportiva e, come detto, di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione), in quanto estranee al thema decidendum della pronuncia. Infatti, in questi casi non sussiste – al contrario delle ipotesi analizzate dalla Corte – alcun deficit di precisione definitoria, grazie al rinvio tassativo alle corrispondenti figure delittuose previste dal codice penale, garantendo la piena comprensione degli esatti confini delle condotte “pericolose”.   
 
Con la sentenza “gemella”, n. 25/2019, invece, la Consulta ha dichiarato la (parziale) illegittimità costituzionale – in relazione all’art. 117 della Costituzione, rispetto all’art. 7 CEDU e all’art. 2 del relativo Protocollo n. 4 – dei reati appositamente introdotti dal Codice antimafia (all’art. 75) di “Violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale”. Questi reati consistono nella violazione delle prescrizioni imposte dai provvedimenti giudiziari che comminano tale misura di prevenzione personale, che può essere corredata o meno dall’obbligo o dal divieto di soggiorno, con conseguente mutazione della natura del reato (delitto nel primo caso, contravvenzione nel secondo).
 
In particolare, la censura della Consulta – che spiega l’incostituzionalità soltanto parziale delle previsioni richiamate – ha avuto ad oggetto soltanto i casi in cui gli obblighi imposti al destinatario della misura siano, anche in tal caso, marcatamente vaghi ed indefiniti, concretandosi nelle prescrizioni del “vivere onestamente” e del “rispettare le leggi”. Tali obblighi traggono origine dall’art. 8, comma 4, del Codice antimafia, il quale si preoccupa di definire un contenuto tipico “minimo” dei provvedimenti di restrizione della libertà personale: “In ogni caso, (il provvedimento) prescrive di vivere onestamente, di rispettare le leggi (…)”.
 
Pertanto, la ratio è, sostanzialmente, la stessa che muove anche la contemporanea pronuncia sopra descritta, ossia l’eccessiva genericità della prescrizione del provvedimento restrittivo, che non consentirebbe al destinatario di determinarsi circa la liceità del proprio comportamento e, quindi, di comprendere cosa possa, per esso, costituire o meno reato.
 
Quest’ultima sentenza, peraltro, si pone in coerente continuità con la recente giurisprudenza, non soltanto di origine sovranazionale (la sentenza “De Tommaso” della Corte EDU), ma anche di legittimità (SS.UU. penali, n. 40076/2017, cd sentenza “Paternò”), che, parimenti, aveva rilevato l’indeterminatezza delle prescrizioni di “vivere onestamente e “rispettare le leggi”, in quanto prive di quel contenuto certo e specifico necessario per dare loro un valore precettivo.
 
 
3. Conclusioni 
Alla luce delle argomentazioni sopra riportate, nella sentenza n. 24/2019 il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di due specifiche norme del Codice antimafia:
1)  l’art. 4, comma 1, lettera c), laddove consente l’applicazione della sorveglianza speciale anche a chi sia abitualmente dedito a “traffici delittuosi”;
2)  l’art. 16, anche in tal caso nella parte in cui stabilisce che il sequestro e la confisca si applichino – anche –  ai soggetti parimenti dediti, in via abituale, ai medesimi “traffici delittuosi”.
 
Mentre, con la contestuale pronuncia n. 25/2019, la sanzione d’incostituzionalità ha colpito l’art. 75, comma 2, del Codice antimafia, nella parte in cui prevede – come delitto –  la violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno ove consistente nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” e, consequenzialmente, l’art. 75, comma 1, nella parte in cui prevede – come reato contravvenzionale – la violazione degli obblighi inerenti la misura della sorveglianza speciale senza obbligo o divieto di soggiorno, anche in tal caso ove consista nell’inosservanza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”.
 
 
Riferimenti esterni:

·        Corte di Cassazione, Sezioni Unite penali, sent. 27 aprile 2017, n. 40076. 

Errata corrige Prezzario regionale 2019 - Decreto n.10/Gab. del 6/03/2019.

In allegato il D.A. n.10/Gab. del 6 marzo 2019 di errata corrige al prezzario regionale 2019.


Il Prezzario e scaricabile sul nostro sito al seguente link: (Prezzario unico regionale per i lavori pubblici anno 2019 - Cfr.News del 17 gennaio u.s.)”

1 allegato

D.A.n.10 del 6.03.19_Rettifiche al Prezzario 

 

Varianti: le proposte di semplificazioni dell’ANAC su obblighi di comunicazione e sanzioni

L’ANAC ha approvato, con la delibera n. 112 del 13 febbraio 2019,  l’atto di Segnalazione n. 4, pubblicato sul sito istituzionale,  con il quale ha formulato al Governo ed al Parlamento alcune proposte di modifica normativa, con particolare riferimento agli obblighi di comunicazione delle varianti e al relativo regime sanzionatorio in caso di inadempimento, come disciplinati dai commi 8 e 14 dell’art. 106 del Codice.

La segnalazione muove dalla volontà di semplificare e razionalizzare il quadro normativo definito dal D.lgs. 50/2016.

Attualmente, l’art. 106 del Codice, come modificato dal D.lgs. 56/2017,  individua una serie di fattispecie in presenza delle quali è possibile modificare un contratto pubblico in corso di esecuzione senza necessità di espletare una nuova procedura di affidamento, ossia nel caso di:

1. modifiche contrattuali previste nei documenti di gara iniziali con clausole chiare, precise e inequivocabili, a prescindere dal valore monetario, sempre che non alterino la natura generale del contratto - comma 1, lett. a);
 
2. lavori, servizi e forniture supplementari - comma 1, lett. b) - a condizione che il cambiamento del contraente originario:
    a) risulti impraticabile per motivi economici e tecnici;
    b) nonché, comporti per la stessa amministrazione notevoli disguido o una consistente duplicazione dei costi;
    c) e comunque sempre nei limiti del 50% del valore iniziale del contratto.
 
3. varianti in corso d’opera propriamente dette, riferite a modificazioni resesi necessarie a seguito di circostanze impreviste e imprevedibili che non alterino la natura del contratto, sempre nei limiti del 50% del valore inziale del contratto (comma 1, lett c);
 
4. sostituzione dell’aggiudicatario originario con un nuovo contraente, qualora ricorrano determinate circostanze, ad esempio, in caso di morte o ristrutturazioni societarie – comma 1, lett. d);
 
5. modifiche non sostanziali (comma 1, lett. e), ossia in caso di modifiche che non alterino considerevolmente gli elementi essenziali del contratto originariamente pattuiti.
 
6. qualora la variazione sia contenuta nei limiti di valore della soglia di rilevanza comunitaria e del 10% del valore iniziale del contratto per i servizi e le forniture ovvero del 15% per i lavori, sempre che la modifica non alteri la natura complessiva del contratto. Nell’ambito delle stesse modifiche rientrano anche quelle per errore progettuale che pregiudicano in tutto o in parte la realizzazione dell’opera o la sua utilizzabilità, nel rispetto dei medesimi limiti d’importo (comma 2).
 
Lo stesso articolo 106, ai commi 8 e 14, disciplina poi il regime di pubblicità e di controllo da parte dell’ANAC delle modifiche contrattuali, stabilendo, tuttavia, modalità dicomunicazione diverse ed un diverso regime sanzionatorio in caso di inadempimento dei relativi obblighi.
 
In caso di lavori, servizi e forniture supplementari e di modificazioni entro i limiti di cui al comma 2 dell’art. 106 – ossia nei casi di cui ai nn. 2 e 6 -  la stazione appaltante deve comunicare all’ANAC le relative variazioni, e, in caso di mancata o tardiva comunicazione, è prevista l’irrogazione da parte dell’Autorità di una sanzione amministrativa carico della stazione appaltante di importo compreso tra 50 e 200 euro per giorno di ritardo (art. 106, comma 8).
 
La norma prescrive, inoltre, che l’Autorità pubblichi sulla sezione del sito Amministrazione Trasparente l’elenco delle modificazioni contrattuali comunicate, indicando l’opera, l’amministrazione o l’ente aggiudicatore, l’aggiudicatario, il progettista, il valore della modifica.
 
Nel caso invece delle c.d. “varianti in corso d’opera” , ossia nel caso di cui al n. 3,:
 
1) se sono relative ad appalti e concessioni di importo inferiore alla soglia comunitaria o se di importo inferiore o pari al 10% del contratto originario di un appalto di importo pari o superiore alla soglia comunitaria è prevista la comunicazione da parte del RUP all’Osservatorio tramite le sezioni regionali.
 
2) se invece eccedenti il 10% dell’importo originario di un contratto di importo pari o superiore alla soglia comunitaria, incluse le varianti in corso d’opera riferite alle infrastrutture prioritarie, è previsto che siano trasmesse dal RUP all’ANAC, unitamente a una serie di documenti.
 
Il comma 14 stabilisce altresì che nel caso in cui l’ANAC accerti l’illegittimità della variante in corso d’opera, essa esercita i poteri di cui all’art. 213, mentre, in caso di inadempimento agli obblighi di comunicazione e di trasmissione delle varianti, si applicano le sanzioni amministrative pecuniarie di cui all’art. 213, comma 13.
 
Infine, il comma 5 prevede un particolare regime di pubblicità per le modifiche dovute a lavori e servizi e forniture supplementari - comma 1, lett. b) - nonché per quelle resesi necessarie per eventi imprevisti e imprevedibili - comma 1, lett. c) - imponendo l’obbligo della pubblicazione di un avviso in Gazzetta Ufficiale europea o nazionale, a secondo che il valore del contratto sia sopra o sotto la soglia comunitaria.
 
Ora, l’Autorità, ritenendo che la sopraesposta diversificazione del quadro normativo non trovi alcuna giustificazione e comporti, anzi, il rischio di una deminutio dell’efficacia stessa delle citate disposizioni, ha suggerito, nell’atto di segnalazione in commento, una serie di modifiche all’articolato in esame.
 
In particolare, viene proposto: 

quanto al regime di trasparenza

1) di estendere l’obbligo di comunicazione e successiva pubblicazione sulla sezione del sito Amministrazione Trasparente dell’ANAC , oggi previsto per le varianti relative ai lavori, servizi e forniture supplementari e per le modifiche consentite entro i limiti di cui al comma 2 del citato art. 106, a tutte le tipologie di modifiche, e, quindi, anche alle varianti in corso d’opera propriamente dette.  
2) al contempo, di eliminare il riferimento alla sezione Amministrazione Trasparente e di indicare, come sede di pubblicazione, una specifica sezione del sito istituzionale dell’ANAC, liberamente consultabile da tutti i cittadini, in cui saranno rese disponibili oltre a tutte le altre informazioni sui contratti, anche quelle relative alle modifiche di cui all’art. 106.
 
quanto alle modalità di comunicazione e trasmissione di dati e documenti all’ANAC,
di sostituire le puntuali indicazioni sulle modalità di comunicazione dei dati informativi e dei documenti relativi alle modifiche contrattuali contenute all’interno dell’art. 106 (comma 8 e comma 14) con l’espresso rinvio al citato art. 213, comma 9, ovvero con la precisazione che “l’Autorità, con propria deliberazione, individua, ai sensi dell’art. 213, comma 9, le informazioni rilevanti e le relative modalità di trasmissione delle informazioni previste dal comma 8 e dal comma 14 del medesimo art.106. Ciò, per evitare sovrapposizioni di oneri informativi a carico delle stazioni appaltanti.
 
quanto al regime sanzionatorio,
di eliminare al comma 8 dell’art. 106 la previsione di un diversificato regime sanzionatorio per le mancate o tardive comunicazioni delle modifiche dovute all’affidamento di lavori, servizi e forniture supplementari e di quelle entro i limiti di cui al comma 2 dell’art. 106, e sostituire la relativa disposizione con il rinvio alle sanzioni amministrative pecuniarie di cui all’art. 213, comma 13, come previsto per il caso di omessa comunicazione delle varianti in corso d’opera.
 
quanto ai poteri dell’Autorità in caso di varianti illegittime,
di integrare la disposizione dell’art. 106, comma 14, a tenore della quale,  nel caso in cui l’ANAC accerti l’illegittimità di una variante in corsa d’opera, esercita i poteri di cui all’art. 213 del Codice - con il richiamo ai poteri di cui all’art. 213, comma 3 (relativi all’attività di vigilanza), e all’art. 211, commi 1-bis e 1-ter (in merito al potere di impugnazione degli atti e provvedimenti relativi a procedure disciplinate dal Codice2); ciò al fine di chiarire che l’eventuale accertamento, da parte dell’Autorità, di una variante contrattuale illegittima non costituisce una ulteriore fattispecie sanzionatoria rispetto a quelle menzionate in precedenza.
 
In allegato, il provvedimento in commento.
 

Appalti pubblici: l’obbligo di SOA sussiste anche per le mandanti

L’esecutore associato in ATI deve necessariamente essere in possesso dell’attestazione SOA se l’importo dei lavori è pari o superiore a 150.000 euro.

Coerentemente, non può ammettersi la partecipazione di un concorrente raggruppato in ATI che sia ricorso ad un artificioso frazionamento dei requisiti di gara, al fine di potersi qualificare con l’apporto di una mandante che, a sua volta, priva di SOA, ha richiesto la qualificazione in gara circoscritta ai lavori di importo inferiore a 150.000 euro.

In tale caso, nel corso della procedura di gara, neppure può essere consentita l'estromissione dall’ATI dell’impresa priva di SOA, al fine di sanare ex post una situazione di preclusione all'ammissione alla procedura medesima.

Lo stabilisce il Giudice amministrativo chiamato ad esprimersi su un provvedimento di esclusione di un’ATI, composta da due imprese qualificate SOA e una qualificata, in gara, ai sensi dell’art. 90 del d.P.R. 207/2010 (Tar Lazio, Roma, sez. III, 14 gennaio 2019, n. 417).
 
In particolare, secondo la Stazione appaltante nel caso in esame:
1.       l’impresa mandante priva di attestazione SOA, non potendosi qualificare ex art. 90 cit., risultava parimenti priva del requisito di cui all'art. 92, co. 2, del d.P.R. n. 207/2010, che impone a ciascuna mandante di dimostrare il possesso di requisiti di qualificazione (economico-finanziari e tecnico-organizzativi) nella misura minima del 10% di quanto richiesto nel bando di gara (40% per l’impresa mandataria);
2.       a nulla era valso il soccorso istruttorio, perché in questa sede l’ATI si era limitata ad estromettere l'impresa mandante, priva dell'attestazione SOA richiesta, rimodulando le suddette quote unicamente tra le due rimanenti imprese e non “tra le imprese costituenti il RTI” conformemente al suddetto art. 92, co. 2 cit..
 
Sotto il primo aspetto, il Collegio ha dichiarato la legittimità del provvedimento di esclusione, aderendo all’orientamento secondo cui l’obbligatorietà dell’attestazione di qualificazione è connessa all’importo dei lavorinon alla singola quota di esecuzione.
 
Nel senso che, solo se i lavori oggetto di affidamento risultano complessivamente di importo inferiore ai 150.000 euro, l’attestazione SOA in capo all’esecutore è condizione sufficiente, ma non necessaria, per la dimostrazione dell’esistenza dei requisiti di capacità tecnica e finanziaria richiesti dal bando di gara.
 
In tal caso, infatti, il concorrente può partecipare all’appalto anche in forza dell’art. 90 d.P.R. 207/2010.
 
Di contro, qualora i lavori oggetto di affidamento risultino di importo pari o superiore a 150.000 euro, ciascun componente dell’ATI deve necessariamente essere in possesso dell’attestazione SOA.
 
Secondo il Giudice amministrativo, ciò trova conferma nell’assunto che, diversamente opinando, si finirebbe per ammettere che qualsiasi appalto di importo superiore a detta soglia possa essere eseguito da tante imprese non qualificate, purché le stesse eseguano una quota di lavori inferiore ad euro 150.000.
 
Ciò condurrebbe ad una palese quanto illegittima elusione dell’obbligo di qualificazione prescritto dall’art. 60, co. 2, del D.P.R. 207/2010 che impone la qualificazione SOA sopra tale soglia di importo (in tal senso, cfr. anche il parere ANAC n. 200 del 5 dicembre 2012 e, in senso contrario , delibera ANAC n. 682 del 28 giugno 2017).
 
Peraltro, come osservato dal TAR Lazio, la possibilità di comprovare all’interno di un’ATI la percentuale minima della quota dei lavori evocando l’applicazione dell’art. 90 del d.P.R. n. 207/2010 (ossia sostanzialmente con i soli certificati di esecuzione dei lavori eseguiti), trova ostacolo proprio in quest’ultimo articolo, che rubricato “Requisiti per lavori pubblici di importo pari o inferiore a 150.000 euro”, è, per l’appunto, letteralmente circoscritto ai soli lavori contenuti entro detto importo (“pari o inferiore a 150.000 euro”).
 
Tale disposizione, prendendo a riferimento l’intero ammontare del contratto, non consente un’interpretazione che ne legittimi un frazionamento “per giunta in grado di sottrarre le commesse alla doverosa applicazione degli artt. 60 e ss. dello stesso decreto, in ossequio al principio di qualità di cui all’art. 30, comma 1, del d.lgs. n. 50/2016” e, neppure, consentendo ad un’ATI di ricorrere a tale artificio “nel tentativo di eludere la regola del possesso delle percentuali minime del lavori stabilite” dal citato art. 92 (10% e 40% cit.).
 
Anche sotto il secondo aspetto, il TAR ha confermato la legittimità dell’esclusione, poiché l'estromissione di un'impresa partecipante ad un‘ATI nel corso della procedura di gara “non può essere eseguita al fine di sanare ex post una situazione di preclusione all'ammissione alla procedura medesima in ragione della sussistenza, al momento dell'offerta, di cause di esclusione riguardanti il soggetto estromesso, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti” (cfr. art. 48, co. 19 del Codice dei contratti, nonché TAR Sicilia, Palermo, Sez. I, n. 2904/2015; Ad. Plen., n. 8/2012, Cons. St., Sez. VI, n. 842/2010; TAR Puglia, Bari Sez. I, n.110/2018).
 
Di contro,  “una soluzione ermeneutica, che intendesse impedire il controllo sui requisiti di ammissione delle imprese recedenti, consentirebbe, dunque, di aggirare quelle prescrizioni che, invece, impongono il possesso dei requisiti in capo ai soggetti originariamente facenti parte del raggruppamento all'atto della scadenza dei termini per la presentazione delle domande di partecipazione” (Consiglio di Stato, sezione V, 28 settembre 2011, n. 5406).
 
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Riferimenti esterni
 
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